Il Code Civil des Français, datato al 21 marzo 1804, sancisce in materia giuridico -economica la completa dipendenza della moglie dal marito, principio ribadito nel codice Pisanelli del 1865, uno dei primi atti giuridici dell’Italia unita. Esso, di fatto, frenò quell’evoluzione della condizione femminile che sembrava dover crescere all’epoca dei Lumi. Le donne non avevano il diritto di esercitare la tutela sui figli legittimi, né quello di essere ammesse ai pubblici uffici. Le donne sposate dovevano lasciare al marito la gestione del denaro guadagnato con il proprio lavoro. Per donare, alienare beni immobili, sottoporli a ipoteca, contrarre mutui, cedere o riscuotere capitali le donne dovevano disporre dell’“autorizzazione maritale”. Tale autorizzazione era necessaria anche per ottenere la separazione legale. L’articolo 486 del Codice Penale prevedeva una pena detentiva per la donna adultera, mentre puniva il marito solo in caso di concubinato.
La donna era considerata inferiore sotto il profilo biologico e di conseguenza costretta a subire una netta disparità sociale e politica. Tale pensiero si ritrova in affermazioni degli intellettuali dell’epoca, come ad esempio in Vincenzo Gioberti: “La donna, è in un certo modo verso l’uomo ciò che è il vegetale verso l’animale, o la pianta parassita verso quella che si regge e si sostentata da sé”. E ancora in Antonio Rosmini: “Compete al marito, secondo la convenienza della natura, essere capo e signore; compete alla moglie, e sta bene, essere quasi un’accessione, un compimento del marito, tutta consacrata a lui e dal suo nome dominata”.
La figura femminile diventa basilare nell’iconografia risorgimentale, spesso ritratta da sola o in piccoli gruppi come fosse un emblema statico, circondata quasi sempre dalle pareti domestiche in penombra, dando vita a sequenze metaforiche esatte e complesse. Non come gli uomini delle grandi tele brulicanti di figure e di frastuono, tese a compiere l’azione, come nei celebri dipinti di Gerolamo Induno, Michele Cammarano o di Archimede Tranzi, che rappresentano in modo drammatico il movimento furioso dell’assalto in guerra, celebre fra tutti quello che raffigura la Presa di Porta Pia di Cammarano, I bersaglieri alla presa di Porta Pia (1871, Napoli, Museo di Capodimonte).[1]
Nelle pitture corali che non raffigurano specificatamente episodi bellici, ma piuttosto i momenti di calma che seguono o precedono la guerra (questi tempi sospesi sono splendidamente fissati dai dipinti di Giovanni Fattori) e i momenti di tripudio collettivo, insomma, le varie vicende che hanno portato all’unità d’Italia, le donne sembrano circondate dal silenzio. Che siano giovani, anziane, borghesi o popolane, le donne spiccano con la loro macchia colorata del vestito, ma anche per l’assenza di movimento, come chiuse in una bolla, che frena il ritmo compositivo dell’insieme (Domenico Induno, Il bullettino del giorno 14 luglio 1859 che annuncia la pace di Villafranca (1862, Milano, Museo del Risorgimento).[2]
Se l’arte è uno degli specchi più fedeli del divenire della storia, si comprende come durante il Risorgimento il modo di rappresentare le cose fosse mutato rispetto ai lucidi anni della Rivoluzione francese e dell’epopea napoleonica, riflettendo i profondi mutamenti sociali e politici del tempo.
Stendhal nel suo De l’amour codifica un dettato nuovissimo: la bellezza non è l’estasi suscitata dalla perfezione della donna amata, ma nella constatazione dei suoi difetti. Quelle dissonanze personalissime, che rendono unica ogni donna, come può essere ad esempio “il piccolo segno di vaiolo” sulla guancia, diventano un segno di tenerezza che stravolge i canoni estetici classici. Mentre Winckelmann trova la perfezione nella linea netta e nelle forme nitide della scultura, nell’unione tra forza e ragione virili, in seguito l’idea romantica si oppone al razionalismo neoclassico e celebra la pittura. Irrompono le sfumature, il colore, l’indefinitezza, proprio come la musica, che per Stendhal “è la pittura delle passioni”. Infatti, per lo scrittore francese la bellezza è compresa solo da chi prova l’amore – passione. Un’arte, quindi, molto adatta a raffigurare il soffuso splendore femminile ma che in questo periodo della storia, così denso di avvenimenti, sente l’esigenza di rappresentarsi in modo nuovo. In un articolo in lingua francese, Giuseppe Mazzini scrive che “in pittura, bisogna vedere”, rimarcando la necessità e l’importanza nell’arte di creare opere capaci di trasmettere, diffondere e far capire le cose in modo inequivocabile. La pittura è per Mazzini veicolo di idee, ha una finalità sociale. E’ comunicazione.[3]
Oltre alla ben nota arte di corte con le sue scenografie regali, o le mute nature morte, o ancora i ritratti uscenti dal fondo scuro, tipici dei periodi passati, continua a godere di favore il consueto racconto della grande storia, ripresa però da punti di vista diversi, uno classico e l’altro nuovo. Il primo è centrato sull’apertura dei grandi orizzonti e il dispiegamento dei soldati nelle vallate, o nei pressi delle città, riconoscibili per i loro monumenti principali: il Duomo di Milano, il Cupolone di San Pietro. L’altro modo è, al contrario, per così dire “decentrato”, quasi fosse un riverbero che giunge a lambire luoghi appartati e lontani. La storia entra nell’intimità delle case borghesi e popolari e mostra i suoi effetti attraverso l’atteggiamento dei personaggi che vi vivono. E dentro le case ci sono coloro i quali non partecipano alla guerra: vecchi, bambini e soprattutto le donne.
Diventa così assai interessante scrutare con più attenzione questi volti femminili, e cercare di distinguere i temi iconografici principali, che inevitabilmente definiscono non solo il ruolo della donna in quel tempo, ma l’intera società civile.
Notizie dal campo
Grande fortuna ha il tema della donna che “subisce” la guerra. Attende a casa il ritorno del marito, del padre o del fratello. Questo tema è stato ampiamente indagato da Gerolamo Induno (1827-1890) in quadri come La partenza dei coscritti nel 1866 (1878), La lettera dal campo (1859, collezione privata), Ascoltando la notizia del giorno (1864, collezione privata) o del fratello Domenico (1815-1878), La lettera (Napoli, Museo di Capodimonte).[4]
Il “centro geometrico” del quadro è sempre lo sguardo della donna, puntato sulla lettera che legge con contratta trepidazione.
Un ambiente più ricercato e borghese, descritto da uno studio con una ricca libreria sullo sfondo e un mappamondo, si trova nel quadro del pisano Odoardo Borrani, La Veglia, il bollettino del 9 gennaio 1878, (1880, Firenze, Galleria di Palazzo Pitti). Tre donne, ciascuna di età diversa, sono intorno a un tavolo, dove brilla un lume decorato dal ritratto di un patriota. Una di loro legge il bollettino mentre le altre ascoltano e sembra di vedere le sue labbra sillabare le parole.[5] Le tre donne si trovano in uno studio e non in cucina tra galline e cavoli da pulire per la cena, tipiche delle case rurali di Gerolamo Induno.
Le donne dipinte in questo periodo sono per lo più solide popolane, con i loro tipici gioielli di corallo, vestiti semplici, il piede nudo che trattiene una pianella. Lo sguardo è quasi sempre volto verso il basso, pieno di pudore. Impossibile non pensare ai personaggi manzoniani di Agnese e soprattutto Lucia. E’ un’immagine di donna tutta dedita alla famiglia e lontana dall’agire delle idee.
Il commiato
Un soggetto assai caro all’iconografia risorgimentale e molto presente anche nei versi e nelle ballate popolari è l’addio del soldato. L’origine di questo tema trova nobile capostipite nel libro VI dell’Iliade, nel commiato di Ettore dalla moglie Andromaca e dal figlio Astianatte, dove identica è la costruzione del dialogo, passaggio dopo passaggio. Prima la moglie cerca di trattenere il marito:
…Ettore, tu sei per me padre e nobile madre
e fratello, tu sei il mio sposo fiorente;
ah, dunque, abbi pietà, rimani qui sulla torre,
non fare orfano il figlio, vedova la sposa;
Risponde Ettore. Egli non può sottrarsi dal prendere parte alla guerra, sarebbe un’onta insopportabile. Inoltre è un uomo e quindi nato per combattere:
Donna, anch'io, sì, penso a tutto questo; ma ho troppo
rossore dei Teucri, delle Troiane lungo peplo,
se resto come un vile lontano dalla guerra.
Né lo vuole il mio cuore, perché ho appreso a esser forte
sempre, a combattere in mezzo ai primi Troiani.
Così il saluto finale è tenero e straziante insieme:
e poi baciò il caro figlio, lo sollevò fra le braccia,
e disse, supplicando a Zeus e agli altri numi…
Dopo che disse così, mise in braccio alla sposa
il figlio suo; ed ella lo strinse al seno odoroso,
sorridendo fra il pianto; s’intenerì lo sposo a guardarla,
l’accarezzò con la mano, le disse parole, parlò così:
“ Misera, non t’affliggere troppo nel cuore!
Soprattutto le parole di Ettore sono ricalcate dai versi risorgimentali. Ecco ad esempio i versi del fiorentino Carlo Alberto Bosi, composti nel 1860:
Addio, mia bella, addio,
l'armata se ne va;
se non partissi anch'io
sarebbe una viltà !
Non pianger, mio tesoro,
forse ritornerò;
ma se in battaglia io moro,
in ciel ti rivedrò.
La spada, le pistole,
lo schioppo l'ho con me;
allo spuntar del sole
io partirò da te.
Il sacco è preparato,
sull'omero mi sta;
son uomo e son soldato;
viva la libertà !
Non è fraterna guerra
la guerra ch'io farò
dall'italiana terra
l'estraneo caccerò.
L’antica tirannia
grava l’Italia ancor
io vado in Lombardia
incontro all’oppressor.
Saran tremende l’ire,
Grande il morir sarà !
Si mora: è un bel morire
morir per la libertà
Tra quanti moriranno
forse ancor io morrò;
non ti pigliare affanno,
da vile non cadrò.
Se più del tuo diletto
tu non udrai parlar,
perito di moschetto
per lui non sospirar.
Io non ti lascio sola,
ti resta un figlio ancor;
nel figlio ti consola,
nel figlio dell’amor.
Squilla la tromba
l’armata se ne va:
un bacio al figlio mio;
viva la libertà !
Una novità è invece espressa, rispetto alle parole di Andromaca, dall’atteggiamento di Clarina, la donna dei versi di Giovanni Berchet, che pur nel dolore incoraggia l’amato a combattere in nome della libertà:
E Clarina al suo diletto
Cinse il brando; e tricolore
La coccarda su l’elmetto
Di sua man gli collocò:
Poi soffusa di rossore,
Con un bacio il congedò.
Cinse il brando; e tricolore
La coccarda su l’elmetto
Di sua man gli collocò:
Poi soffusa di rossore,
Con un bacio il congedò.
Ma indiscreta sul bel volto
Una lagrima pur scese: –
Ei la vide; e al ciel rivolto
Diè un sospiro e impallidì: –
E la vergine cortese
Il guerriero inanimì:
Una lagrima pur scese: –
Ei la vide; e al ciel rivolto
Diè un sospiro e impallidì: –
E la vergine cortese
Il guerriero inanimì:
Fermi sieno i nostri petti;
Questo il giorno è dell’onore:
Senza infamia a molli affetti
Ceder oggi non puoi tu.
Ah! che giova anco l’amore
Per chi freme in servitù?
Questo il giorno è dell’onore:
Senza infamia a molli affetti
Ceder oggi non puoi tu.
Ah! che giova anco l’amore
Per chi freme in servitù?
Va, Gismondo e qual ch’io sia,
non por mente alle mie pene.
non por mente alle mie pene.
Una patria avevi in pria
Che donassi a me il tuo cor:
Rompi a lei le sue catene,
Poi t’inebria dell’amor.
Che donassi a me il tuo cor:
Rompi a lei le sue catene,
Poi t’inebria dell’amor.
Va, combatti; – e ne’ perigli
Pensa, o caro, al dì remoto
Quando, assiso in mezzo ai figli,
Tu festoso potrai dir:
Questo brando a lei devoto,
Tolse l’Italia dal servir.
Pensa, o caro, al dì remoto
Quando, assiso in mezzo ai figli,
Tu festoso potrai dir:
Questo brando a lei devoto,
Tolse l’Italia dal servir.
Nella pittura questo momento così drammatico si offre a essere rappresentato più volte, come in una tela di Gerolamo Induno, La partenza dei coscritti nel 1866 (1878, Milano, Museo del Risorgimento), dove in mezzo alla scena affollata di persone sulla strada, davanti alla chiesa e ai notabili del posto e il parroco, spicca un giovane che bacia con tenerezza la fronte della moglie e accarezza il bambino che lei porta in braccio. Stretti a loro il resto della famiglia, due figli ancora piccoli. Il volto della donna è malinconico ma rassegnato. Invece in un’opera anonima, Scena delle Cinque giornate di Milano (1848-1849, Milano, collezione privata) una donna si slancia verso l’uomo per convincerlo a non partire, mentre un bambino piange attaccato alla sua gonna. All’orizzonte si stagliano bianche le guglie del Duomo di Milano.[6] In entrambe le opere, la bandiera tricolore sovrasta le coppie, quasi a volerle proteggere nell’ora del sacrificio necessario.
Il dolore
Il dolore di chi attende a casa e non sa cosa ne sia del proprio marito, figlio, fratello o amato è intollerabile. E’ un sentimento che non riposa mai. Il dolore per la perdita dei propri cari in guerra si deve vivere con dignità e compostezza, tenendo compresso dentro di sé lo strazio, perché la libertà e la Patria valgono il sacrificio e rendono eroi. Così le donne soffrono due volte, anche per la pena di dover dissimulare la pena.
Le molte pitture rendono molto bene quest’opposto sentimento. Ad esempio nell’opera di Filippo Liardo, Sepoltura garibaldina, Un episodio del bombardamento Di Palermo 1860 (1862-1864, Palermo, Civica Galleria d’Arte Moderna “Empedocle Restivo”), le due giovani donne non piangono, il volto è stanco e contratto dal dolore, intorno ci sono ancora i segni freschi del bombardamento: macerie e tracce di sangue sugli scalini.[7] Ancora, nella tela di Domenico Romano, la giovane donna in lutto stringe a sé la divisa del marito caduto in guerra, le medaglie al valore appuntate sulla giacca, I tristi effetti della guerra (1860-1875 Napoli, Convento di S. Maria La Nova).
Gli stadi del dolore sono molteplici. C’è anche quello che si teme di dover provare. Nell’opera di Mosè Bianchi, I fratelli sono al campo, Ricordo di Venezia (1869, Milano, Pinacoteca di Brera) le tre donne formano con i loro scialli il tricolore. Il loro dolore non sembra sciogliersi neppure nella preghiera disperata, aggrappate agli arredi di una chiesa, davanti all’altare con il tabernacolo.[8]
Nel Triste presentimento (1862, Pinacoteca di Brera, Milano), di Girolamo Induno o come nell’opera di Giuseppe Reina, Una triste novella (1862, collezione privata), le fanciulle guardano rispettivamente il ritratto dell’amato e una riproduzione del Bacio di Francesco Hayez (1859, Pinacoteca di Brera, Milano), celebre dipinto che compare anche nella prima opera, in forma di quadretto appeso alla parete della stanza, accanto, forse a quello che sembra essere un piccolo busto di Garibaldi.[9] Le fanciulle sospirano per l’innamorato lontano e sentono che non tornerà più. L’atmosfera nella stanza è innocente e pulita, uguale a quella descritta da Giulio Carcano in una delle sue Novelle: “La fanciulla, desta di buon mattino, sorgeva pura e serena come l’alba […] rifaceva il letticciuolo candido e modesto…”.
La presenza ripetuta del dipinto di Hayez testimonierebbe una fortuna consolidata dell’opera non solo perché rappresenta in modo incantevole il romanticismo nella sua forma più classica e sentimentale, ma anche perché i colori dei vestiti dei due amanti comporrebbero il tricolore e quindi sarebbe un omaggio all’Italia.
Amor di Patria
Durante il Risorgimento, le donne parteciparono attivamente agli avvenimenti e alle idee che portarono all’Unità d’Italia. Rintracciare queste testimonianze nella storia è molto difficile; la donna è considerata sempre come “la costola dell’uomo” e anche il suo impegno civile e politico sembra più frutto di dedizione amorosa, che di scelta consapevole. Non fu così evidentemente, tuttavia, la cronaca del tempo e le immagini d’arte mostrano una donna impegnata in ruoli stereotipati, dove solo lo sguardo fiero dei tanti ritratti femminili, basti pensare a quelli di Cristina Trivulzio di Belgioioso, specie in quello dipinto da Hayez (Collezione privata, Firenze), o di Anita Garibaldi (si guardi l’unico ritratto che le fu fatto dal vero di Gaetano Gallino, Montevideo 1845), per citare solo due tra le donne più famose, tradiscono un temperamento indomito, abituato ad agire e non a patire. Spirito vivo trasmette anche la marchesina Anna Pallavicino Trivulzio, ritratta da Giuseppe Molteni con la Divisa delle Cinque giornate (1848, Milano, collezione privata). La bimba posa appoggiata a una baionetta giocattolo, e guarda fieramente verso di noi, come a far capire di comprendere il significato del suo ruolo, nonostante la sua giovanissima età.[10]
Il patriottismo delle donne è rappresentato per lo più come dedizione silenziosa o attraverso attività da farsi nel chiuso delle pareti domestiche, come le cucitrici di bandiere dei versi di Francesco Dall’Ongaro del 1847:
La Bandiera
Di nostra mano fu trapunta d’oro
E ad ogni punto il cor trasse in sospiro.
L’angiol d’Italia vigilò il lavoro
Dalle stellate volte dell’empiro;
L’angiol d’Italia e il benedetto coro
Dei generosi che per lei moriro.
Sposi e fratelli, difendete uniti
questa bandiera e questi sacri liti:
pensate al core che per lei sospira,
e all’angiolo d’Italia che vi mira.
E sempre la pittura di questo periodo registra fedelmente la scena, “si vede”, come raccomandava Mazzini, ad esempio nell’opera di Odoardo Borrani, Il 26 aprile 1859 (1861, Viareggio, Istituto Matteucci). Una donna cuce il tricolore in una stanza rischiarata dalla luce che viene dalla finestra, descrivendo in modo indiretto e intimo il giorno antecedente alla caduta del regno dei Lorena, quando l’Austria-Ungheria dichiarò guerra al regno di Sardegna. Così in un’opera di Domenico Induno, Tre donne intente a confezionare una bandiera (Milano, Museo del Risorgimento). Sempre Borrani dipinge nel 1863 Le cucitrici di camicie rosse (collezione privata).[11]
Nei titanici scenari di guerra spesso si intravvedono donne intente a prestar aiuto ai soldati e ai feriti. Donne del popolo tendono con semplicità una brocca d’acqua come nell’opera di Girolamo Induno, La discesa d’Aspromonte (1863, collezione privata), o sostengono il capo dei moribondi, porgendo loro il crocifisso, come la giovane suora nell’opera dello stesso pittore, La battaglia della Cernaja (1857, Milano, Fondazione Cariplo).[12]
L’amore per la Patria si esprime anche e soprattutto svolgendo bene il compito di madre di famiglia, amorosa ed esemplare educatrice. La tela di Giuseppe Sciuti, Le gioie della buona mamma (1877, Palermo, collezione privata), mostra in modo prezioso e calligrafico la solidità borghese di una madre, attraverso la raffinatezza della sua veste e di quella dei figli. Allatta il neonato e insegna a leggere al figlio più grande. Una balia vestita con il costume ciociaro sorregge un terzo bambino che indica Roma su una cartina dell’Italia.[13]
La “trasgressione eroica”
Durante il Risorgimento diventarono di moda i cosiddetti cataloghi biografici di donne, che raccontavano vite di sante o madri o comunque figure femminili che potessero servire da modello sociale. Archetipo di tali cataloghi sono l’opera di Plutarco, il Mulierum virtutes e, all’inizio del ‘400, Le Livre de la Cité des dames di Christine de Pizan, l’insignis femina, virilis femina, scrittrice e poetessa che tra le prime rivendicò l’uguaglianza tra maschi e femmine, pur rimpiangendo di non essere nata uomo perché “non mi sbaglierei in nulla e sarei perfetta in tutto, come gli uomini dicono di essere…”.
Tra queste donne ve ne sono alcune descritte con caratteristiche particolari, donne controcorrente, che parteciparono attivamente al processo storico che portò all’Unità d’Italia. Donne il cui impegno è definito in modo calzante “trasgressione eroica” da Gianna Pomata.[14]
Ricerche recenti, ad esempio quella condotta dall’Università di Napoli sull’Italia del sud, stanno rintracciando molti nomi e storie che nel tempo erano stati dimenticati, se non censurati.[15] Ancora un’opera di Gerolamo Induno mostra nella Trasteverina uccisa da una bomba (1850, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea), una donna - poco più che una bambina in verità- che ancora una volta subisce la guerra e viene uccisa mentre, ignara, è intenta a cucinare nel chiuso della sua povera casa.[16]
In verità, nonostante la documentazione storica e ufficiale non le registri se non sporadicamente, molte donne morirono combattendo. E’ una documentazione che va letta trasversalmente, quella che permette di ricostruire l’impegno femminile e si trova nelle testimonianze minori, quali sono le memorie familiari, le iscrizioni sulle lapidi, gli elogi funebri, le lettere, i diari.[17] Il politico e storico della letteratura italiana, Vittorio Cian, riconosceva: “Bisogna che noi signori uomini abbiamo coraggio di confessare che, senza volerlo, solo spinti dal nostro istinto e dalle nostre abitudini di maschi sopraffattori, nello scrivere la storia abbiamo fatto e continuiamo a fare un po’ troppo la parte del leone... Bisogna che abbiamo pure il coraggio di rivederla questa storia scritta da noi e di riconoscere col fatto che, quanto più si estendono e si approfondiscono le indagini sul nostro Risorgimento, più vediamo balzar fuori figure di donne”.
Tra le patriote basti ricordare Colomba Porzi Antonietta, ritratta da Giovanni Nicolini nel 1911, in uno dei busti del Gianicolo, è una delle tante donne che sacrificarono la loro vita a Porta san Pancrazio, durante l’assedio ai francesi. Si dice che si vestisse da uomo e partecipasse alla guerra per non abbandonare il marito ed essergli sempre vicino, pur tuttavia le sue ultime parole morendo furono “Viva l’Italia”.
La donna come simbolo
L’uso di affidare a sembianze umane la rappresentazione di un luogo, di una regione, di un fiume o specialmente di una città risale all’età greca. Atena, la dea elmata figlia di Zeus e simbolo di saggezza diede il nome ad Atene.
Donne con capo cinto di corone murarie o turrite e attributi atti a riconoscere più facilmente i luoghi impersonano alcune città antiche come la celebre antropomorfizzazione di Antiochia, opera di Eutichide di Sicione e di altre città orientali e soprattutto di Roma, che è la divinizzazione stessa della città.
La personificazione nazionale in epoca risorgimentale non è più la dea distante e inespressiva, così appare nell’iconografia classica fino all’età napoleonica, ma si spoglia dei suoi attributi regali, diventa una fanciulla dallo sguardo fiero e triste insieme, i capelli sciolti, la veste a scoprire una spalla o il seno. Celebre e splendida, tra le diverse opere di simile soggetto e dello stesso artista, è l’opera di Hayez, La Meditazione o L’Italia nel 1848 (1851, Verona, Civica Galleria di Arte Moderna). La fanciulla rappresenta un’Italia sconfitta, ma pronta a rialzare il capo e continuare a lottare. Con la mano sinistra tiene un volume sul cui dorso si legge a caratteri in rosso “Storia d’Italia”, mentre nella destra stringe una croce che reca le date delle cinque giornate di Milano, dal 18 al 22 marzo 1848. Il quadro andò all’Esposizione di Verona del 1852 e in quei giorni la rivista “Il collettore Dell’Adige” riportava questo commento: “Ella guarda, Ella tace, ma guardando e tacendo Ella parla”.[18]
Stessa ispirazione hanno altre opere come la Melanconia o l’Italia in catene di Francesco Canella (1851-1855, collezione privata).[19]
Questa Italia che soffre e lotta per l’indipendenza è descritta così nei delicatissimi versi di una poetessa contemporanea, Elena Bono:
Piccola Italia, non avevi corone turrite
né matronali gramaglie.
Eri una ragazza scalza,
coi capelli sul viso
e piangevi
e sparavi.
Ma già nel 1835 Giuseppe Mazzini sembra suggerire con le parole quello che i pittori mostreranno nelle loro tele: “… la patria vi è apparsa un giorno nei vostri sogni come una sorella disonorata dalla violenza, come una madre che perduto i suoi figli e che piange…”[20].
L’Italia ricorre con i suoi attributi fondamentali anche in molte vignette dell’epoca e nelle medaglie. Le caratteristiche che la rendono immediatamente riconoscibile sono la corona turrita, una tunica semplice alla greca, i piedi scalzi, talvolta le catene alle caviglie.[21]
L’Italia viene spesso rappresentata anche in costume ciociaro, come nell’opera di Hayez (1842) dove una donna si appoggia a un capitello romano di spoglio, sullo sfondo dell’agro pontino. In generale compaiono spesso figure con questo vestito inconfondibile, dove Roma diventa il simbolo dell’Italia stessa.
Un ruolo cruciale ebbe Venezia, annessa al Regno d’Italia nel 1866, che ebbe a lottare contro la dominazione asburgica. La personificazione della città veneta è un tema ricorrente, come nell’opera di Andrea Appiani jr, Venezia che spera (1861, Milano, Museo del Risorgimento). Una splendida donna si protende a guardare l’orizzonte, lo sguardo acceso di passione, mentre con una mano blandisce il leone, simbolo della città. Veste semplicemente una tunica trattenuta da una corda, e lascia da parte l’ermellino e il corno, simboli regali.[22]
Romanticismo, passione, sentimento: sono questi gli aggettivi che ci vengono in mente guardando queste immagini femminili piene di sensualità, dove la donna non risponde certo ai canoni del tempo che la voleva virginale o madre devota di famiglia, avulsa da ogni partecipazione sociale. Certo, questi ritratti riflettono donne vere, che vissero e agirono, come nella descrizione delle donne catanesi di Henry Clark Barlow: Un’escursione in Sicilia, 1843: “…le donne sono avviluppate fino agli occhi in mantillas lunghe e nere, ma gli occhi sono visibili e quando li intravedete sono già sufficienti per se stessi. Verrebbe di pensare che le signore di Catania portano il lutto per il destino dei loro antenati sepolti vivi nei numerosi terremoti che hanno distrutto la città o portati via da un’epidemia o sopraffatti dai fuochi dell’Etna. C’è un che di funereo, ma gli occhi delle donne non sono pieni di lacrime ma di un fuoco più brillante e forse non meno consumatore di quello del loro vicino ammantato di neve”.
Queste donne sono vere, dicevo, ma come in un gioco di specchi, la letteratura le fa entrare nell’immaginario. Chi non ricorderà alcuni personaggi di donne “diverse”, talvolta persino un po’ ferine, che sfuggono a ogni facile tipologia: La Lupa di Giovanni Verga; Donna Bastiana, la madre di Angelica del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa; Fosca dell’omonimo romanzo di Igino Ugo Tarchetti…
Sono donne - archetipo, si dirà, più vicine a divinità ancestrali che a donne in carne e ossa. Non è così semplice. Sono, forse, semplicemente donne diverse dagli stereotipi dell’epoca in cui hanno vissuto. Donne che qualsiasi catalogo biografico ottocentesco a uso didattico non avrebbe saputo dove collocare. E che l’incomprensione ha descritto in modo da rendercele misteriose.
[1] 1861. I pittori del Risorgimento, a cura di Fernando Mazzocca - Carlo Sisi, Catalogo della mostra di Roma (Scuderie del Quirinale, 7 ottobre 2010 - 15 gennaio 2011), Roma, Skira 2010, pp. 92-93.
[9] Ibid., p. 48.
[10] Ibid., pp. 112-113.
[11] Ibid., p. pp. 46, 120-121.
[12] Ibid., pp. 79-81; 138-141.
[14] Gianna Pomata, Storia particolare e storia universale: in margine ad alcuni manuali di storia delle donne, in: “Quaderni storici”, 74, 1990, p. 346.
[15] http://www.storia.unina.it/donne/invisi/presenta.html, cui si rimanda per i molti profili di donne per l’area dell’Italia meridionale, mentre per il settentrione si veda soprattutto: Dizionario biografico delle donne lombarde. 598- 1968, Milano, Baldini e Castoldi, 1995.
[17] Laura Guidi nel sito sopra citato.
[20] Giuseppe Mazzini, Dell’arte in Italia. A proposito di Marco Visconti, romanzo di Tommaso Grossi [1835], in Scritti editi e inediti di Giuseppe Mazzini, Imola 1910, v. VIII, p. 16.
[21] L’Unità d’Italia. Parole e immagini dell’epopea nazionale in una collezione inedita per le celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, Collezioni Numismatiche, Roma 2010, passim e in particolare: Paola Puglisi, Corona elmo e cappello – La personificazione dell’Italia sulla stampa.
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