giovedì 18 gennaio 2018

FINESTRESULLARTE.INFO

Tra paesaggi e ninfee, le opere di Monet dal Marmottan di Parigi al Vittoriano di Roma

  Recensione della mostra 'Monet. Capolavori dal Musée Marmottan, Parigi' al Vittoriano di Roma dal 19 ottobre 2017 all'11 febbraio 2018 sul sito Finestre sull'arte

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Tra paesaggi e ninfee, le opere di Monet dal Marmottan di Parigi al Vittoriano di Roma


Recensione della mostra 'Monet. Capolavori dal Musée Marmottan, Parigi' al Vittoriano di Roma dal 19 ottobre 2017 all'11 febbraio 2018.
Monet. La mostra, ospitata dal 19 ottobre 2017 all’11 febbraio 2018 nella sede del Complesso del Vittoriano di Roma, raccoglie 60 opere di Claude Monet (Parigi, 1840 – Giverny, 1926), il grande padre dell’impressionismo, provenienti dal Musée Marmottan Monet di Parigi. Opere conservate gelosamente nella sua casa di Giverny e donate al Museo dal figlio Michel nel 1966. L’esposizione delle opere segue un doppio binario: quello cronologico e quello dell’evoluzione stilistica attraverso i grandi temi. Nella raccolta vi sono alcuni grandi capolavori come il Ritratto del figlio Michel da neonato (1878-1879), Ninfee (1916-1919), Londra. Il Parlamento, riflessi sul Tamigi (1905), Le rose (1925-1926).
Nella prima sala i disegni rappresentano il nascere e la consapevolezza del suo voler diventare artista. Si tratta di caricature, molte delle quali ricopiate, dove sono raffigurati personaggi noti del tempo (1855-1859). Nella stessa sala vediamo anche alcuni ritratti. Uno è del figlio Jean e gli altri tre raffigurano il figlio Michel da neonato e da bambino. Queste quattro opere mostrano già in modo chiaro quanto gli interessasse l’armonia dei colori e come la linea fosse una pennellata volta a rendere “l’impressione” piuttosto che alla rappresentazione fedele e accurata dei soggetti, tipica del Realismo.
Seguono i paesaggi, all’inizio nordici, di quell’abbagliante freddo del colore d’inverno, di neve e ghiaccio dei luoghi a lui familiari nei dintorni di Parigi e nella Normandia. Poi la svolta. Nel 1883 compie un viaggio in Liguria e nel 1884 si stabilisce per settantanove giorni a Bordighera. Scopre la luce del sud e ne rimane incantato. I colori si scaldano e diventano quelli del sole e di quel calore che fanno maturare i frutti. Il mare è di un blu intenso, le piante esotiche e brillanti. Nel Castello di Dolceacqua (1884) appare un altro elemento fondamentale della pittura di Monet, il ponte, che non è semplicemente la rappresentazione di una struttura architettonica, quanto un elemento usato per sezionare lo spazio della tela e ricomporlo geometricamente. Un motivo che ritroveremo nella sua produzione più matura, il ponte giapponese insieme all’arco di ferro del viale delle rose. Queste vedute sono riproposte più e più volte: sempre lo stesso soggetto e dallo stesso punto di vista. Cambiano le ore e quindi i colori e le ombre. Il colore è più denso e quasi plastico oppure trascolora e si alleggerisce nelle sfumature più tenui.
Tra i dipinti della mostra, celebre è quello del Parlamento di Londra che si specchia nel Tamigi. Monet non usava il nero e l’ombra del grande edificio si tinge di verde mentre il sole spunta tra le nuvole livide come dopo la pioggia e riflette lingue d’oro sul fiume. Venezia e Londra saranno i paesaggi più dipinti, ottenendo grande successo. 


 

Monet viaggiò assiduamente con l’ansia di vedere e trovare nuovi soggetti, soprattutto dopo il suo trasferimento a Giverny, nel 1883. Impossibile qui, non riportare le parole che Guy De Maupassant scrive sull’amico: “Lo scorso anno, in questo paese, ho spesso seguito Claude Monet in cerca di ‘impressioni’. Non era un pittore, in verità, ma un cacciatore. Andava, seguito dai bambini che portavano le sue tele, cinque o sei tele raffiguranti lo stesso motivo, in diverse ore del giorno e con diversi effetti di luce. Egli le riprendeva e le riponeva a turno, secondo i mutamenti del cielo. E il pittore, davanti al suo soggetto, restava in attesa del sole e delle ombre, fissando con poche pennellate il raggio che appariva o la nube che passava… E sprezzante del falso e dell’opportuno, li poggiava sulla tela con velocità… L’ho visto cogliere così un barbaglio di luce su una roccia bianca, e registrarlo con un fiotto di pennellate gialle che, stranamente, rendevano l’effetto improvviso e fuggevole di quel rapido e inafferrabile bagliore. Un’altra volta ha preso a piene mani uno scroscio d’acqua abbattutosi sul mare e lo ha gettato rapidamente sulla tela. Ed era proprio la pioggia che era riuscito a dipingere, nient’altro che della pioggia che velava le onde, le rocce e il cielo, appena distinguibili sotto quel diluvio”.
“Cacciatore di soggetti” anche grazie a una scoperta dell’epoca che segna un momento fondamentale per la pittura: l’invenzione del tubetto di colore che permise agli artisti di uscire dal chiuso dell’atelier, smettere di usare i pigmenti e dipingere en plein air, portandosi dietro il cavalletto da piazzare liberamente.
I soggetti di Monet sono quasi sempre acquatici. L’acqua con il suo mutevole baluginio tiene sospese le barche. Ci sarà un momento che Monet entrerà nel microcosmo segreto del suo giardino senza uscirne più. Nel 1890 l’artista riesce ad acquistare la proprietà di Giverny e dedicarsi alla sistemazione della casa e del giardino. Monet costruisce il suo paradiso personale, come sempre è identificato il giardino fin dalle prime righe della Genesi e in tutti i periodi dell’arte. 

 

E finalmente arriviamo alle ninfee. Quadri grandi, enormi, strani per noi abituati a vedere simili formati, a quel tempo, dedicati esclusivamente a composizioni corali, solenni rappresentazioni religiose o storiche. Sono grandi dipinti dove campeggiano le piante giardino, soprattutto le sue ninfee sospese sull’acqua ferma della vasca, come addormentata. Gli effetti mutevoli della luce in superficie mentre si intravvede la vita subacquea e il lento movimento dell’acqua stagnante.
Scrive Monet: “Mi ci è voluto un po’ di tempo per capire le mie ninfee (…) Le avevo piantate per puro piacere coltivandole senza pensare di dipingerle (…) E all’improvviso mi si rivelò la magia del mio stagno. Presi la tavolozza. Da allora non ho quasi mai usato altro modello”.
Tra il 1918 e il 1924 Monet affronta le sue ultime opere divise in tre grandi cicli, i salici piangenti, il ponte giapponese e il clos normand, il giardino che separa la sua casa dal giardino d’acqua. Per Monet non è mai interessante rendere i particolari del soggetto. A lui non interessa distinguere le diverse parti del fiore o delle foglie. Noi guardiamo e riconosciamo quello che dipinge, in un’impressione. E dopo le ninfee ancora acqua dove vi si specchiano i molli rami dei salici piangenti, resi con colori diversi e densità diverse.
Infine le rose degli archi in ferro dipinti di verde del suo giardino o i glicini in fiore. Sono quadri di grande formato, quasi retabli, dove il colore si mescola alla forma e sembra nascere da una nebbia che non si può decifrare, ma ha colori inediti, mai visti, modernissimi. Il glicine come vaporoso, steso che sembra un acquerello, i gialli, i verdi acidi, colori inediti, puri. Una purezza senza nero. Monet ripete molte volte lo stesso soggetto finché le forme diventano indistinte, fino al punto del non ritorno: quel momento sottile in cui l’arte figurativa diventa astratta. L’intelligenza dell’allestimento di questa mostra ci pone di fronte a un’epifania, a un miracolo. L’arte figurativa viene superata, siamo qui, nel presente. Percepiamo il nuovo linguaggio, che è nostro.
L’ultima opera della sua vita (1925) è abbagliante. Un cielo azzurro su cui si stagliano rose e foglie. Monet nel 1912 è affetto da una cataratta che gli modifica in modo sostanziale la capacità visiva. Le sue pennellate diventano sempre più evidenti, materiche, e forse anche a causa di questo motivo adotta tele inusitatamente grandi, dove stendere soggetti come il ramo di rose dilatato contro il cielo. “A parte la pittura e il giardinaggio, sono un buono a nulla”, diceva Claude Monet e sembra di risentire le parole di Goethe: “Il giardino va inteso come una pittura”. Monet l’aveva capito in pieno.

giovedì 28 dicembre 2017



Franco Ferrarotti
poeta per GattoMerlino/Superstripes edizioni









Venerdì 23 novembre, presso lo Spazio Gatto Merlino in Roma, sono stati presentati gli ultimi due volumi di poesie  di Franco  Ferrarotti “Ti contemplavo come un giorno a Paestum” e “La colazione del pellicano” (Gattomerlino/Superstripes edizioni).

Hanno presentato la serata il poeta e critico Elio Pecora, Angela Ermes Cannizzaro, curatrice del sito di Franco Ferrarotti, e Piera Mattei, scrittrice, editrice e curatrice dei volumi.

Quello che colpisce di Franco Ferrarotti è il suo mistero. Un uomo così pieno di vita e pensiero, di sapienza e cose fatte, pensate; il numero sterminato di studi, libri, ricerche, esperienze, scelte. Di contro  la sua leggerezza,  la capacità di narrare in modo aereo e sorridente. Non voglio parlare di ironia perché definisce per lui  un termine ancora troppo pesante e scuro. Esiste una sola parola che mi porta a definire Franco Ferrarotti in un modo esatto, ed è la stessa usata da Sciascia per Stendhal: adorabile. Perché questo poeta, padre della Sociologia italiana, conosciutissimo in Italia e all’estero, che ha attraversato novantuno anni della storia in modo così intenso e vero, libero, ribelle, non si può ammirare se non in modo affettivo. Il suo parlare è fragoroso e trascinante, generoso, divertente e appassionante. I racconti della sua infanzia, dei motivi che l’hanno portato alla poesia, la sua visione del mondo, della vita e della morte. La società tecnologica, il progresso tecnico e la strada che stiamo percorrendo. E infine la domanda più importante per un poeta, che è sempre la stessa: cos’è la poesia? “La gente senza poesia arriva a morte prima di aver vissuto”... “La poesia può tenere viva l’originalità irriducibile di ognuno”. “La poesia è come uno spogliarello. Lascia nudi”. Sono solo alcune delle sue risposte.

Poi si leggono i versi e si scopre un altro, nuovo mondo, un altro linguaggio. Ed è il suo mistero.

Difficile parlare della sua poesia, difficile sempre parlare di poesia. Lo ha spiegato molto bene Elio Pecora: “la poesia va presa e non commentata”.

I versi di Franco Ferrarotti sono una musica lenta. Sono come i cerchi nel lago. Malinconici e  sensuali. Sono simili ai campi lunghi della sua terra, dai colori sfumati nella nebbia. Talvolta irrompe la sensualità vermiglia e morbida del desiderio e del ricordo, della donna amata. Il suo verso parla a voce bassa e costringe a rileggere molte volte per riassaporare il suono e l’immagine che si forma nella nostra retina. E ancora diventa ritmo veloce e colori esotici di luoghi lontani.

Non si può descrivere la poesia. “Va presa”.



mercoledì 27 dicembre 2017



Dalla cronaca nera al romanzo: "L'oltraggio della sposa" di Ottavio Olita

http://www.portaleletterario.net/notizie/attualita/993/dalla-cronaca-nera-al-romanzo--loltraggio-della-sposa-di-ottavio-olita

 



Venerdì 24 novembre, nella prestigiosa sala del Carroccio in Campidoglio a Roma, Gemma Azuni, membro dell'esecutivo Fasi, ha presentato e introdotto l’ultimo romanzo di Ottavio Olita “L’oltraggio della sposa” (Città del Sole edizioni).
Come bene ha affermato Carlo Felice Casula, professore ordinario di storia contemporanea, sarebbe riduttivo definire il libro “giudiziario”, mentre deve essere inserito a pieno titolo nella grande tradizione letteraria del romanzo storico ottocentesco. “L’oltraggio della sposa” riesce a entrare molto bene nelle atmosfere e negli umori che hanno caratterizzato l’Italia, offrendo quadri vividi di molte regioni del Paese, dalle aree periferiche della Calabria, alla Campania e in particolare in quella dei coltissimi e raffinati salotti napoletani, all’Abruzzo e infine a Roma, la capitale, il centro nevralgico del Paese. È una storia di un’Italia unita ancora da poco, tessuta attraverso le vicende di cronaca nera dell’omicidio del capitano Giovanni Fadda, eroe della seconda guerra d'indipendenza del 1859, ucciso dall’amante della moglie Raffaella Saraceni, il 6 ottobre 1877. Nel romanzo i nomi sono stati cambiati, ma l’autore ricostruisce la vicenda con rigore storico attraverso la ricerca e l’analisi autoptica dei documenti d’archivio, dei fascicoli giudiziari e degli articoli di Luigi Arnaldo Vassallo sul “Messaggero” che proprio grazie ad essi aumentò la tiratura del giornale in modo esponenziale. Eppure il romanzo non diventa mai racconto freddo e meramente tecnico. Come l’ha definita il professore Casula, la scrittura è piana, invita alla lettura, non cede mai alla retorica o all’enfasi. Non è neppure un romanzo di soli fatti, perché su tutto aleggia l’antitesi fondamentale dell’uomo: la guerra e la pace dove quest’ultima si scioglie e affiora limpida come messaggio di speranza nelle parole finali della protagonista.
La trama è quindi la rivisitazione del processo, appunto, accaduto 150 anni fa. La giovane Adele Mori è sposa del capitano Giacomo Perra, cagliaritano, molto più grande di lei, eroe di guerra ferito proprio nelle sue capacità virili. Questa sua impossibilità diventa il motivo scatenante della vicenda, perché la donna lo tradirà con molti amanti fino a incontrare quello fatale che per gelosia lo ucciderà. L’amante Pietro Cardinali, che nel romanzo è chiamato ironicamente Paolo Vescovi, è un circense. Il processo che ne consegue destò l’interesse morboso della gente che ogni giorno faceva ressa per entrare nell’Oratorio dei Filippini, dietro la chiesa di Santa Maria in Vallicella, e assistere di persona. Era la prima volta che un dibattimento giudiziario si svolgeva in pubblico e questa storia cupa, che metteva di fronte un eroe dell’Italia neounita a un saltimbanco, attirò immediatamente la curiosità di tutti. Al centro la giovane donna accusata di istigazione, una contadina calabrese che leggeva “Madame Bovary” di Flaubert, che era piena di passione e desiderio romantico e che non poteva certo sopportare la solitudine fisica e morale cui la sottoponeva un marito assente. Questa storia attirò anche l’interesse di Giosuè Carducci che, testimone oculare, ci ha lasciato versi ironici e pungenti sulle dame piene di ipocrisia assiepate sui palchi, che “sgretolando i pasticcini” guardano, misurano e giudicano (Giambi ed epodi, “XXIX. A proposito del Processo Fadda”).
La riflessione dell’autore è di tipo giornalistico, ma piena di rispetto e passione, come ha affermato Anna Maria Curci, germanista, studiosa e poeta, individuando “tre sentieri” presenti anche negli altri romanzi di Olita. Il primo è una cornice entro cui risiedono i fatti narrati; il secondo è la volontà di fare luce sulla vicenda, andando al di là dello scandalo; il terzo sentiero è l’attenzione all’evoluzione psicologica delle figure femminili, che lo rendono anche romanzo di formazione.
Maria Antonietta Schirru, pediatra allergologa, ha offerto una lettura del libro sotto l’aspetto del romanzo d’amore. I personaggi sono resi in modo vivido e tutti hanno in sé qualcosa di positivo. Un romanzo corale dove molti sono i volti e dove sono rappresentate tutte le classi sociali in maniera mai frettolosa o superficiale. L’amore emerge anche nei sentimenti contrastanti dei personaggi, come quello della madre di Adele, che riesce a comprendere la figlia innamorata dell’uomo sbagliato.
Anche Vittoria Tola, presidente UDI nazionale, pone l’accento sull’importanza del romanzo storico e in particolare di questo, perché permette di seguire un doppio binario dove all’analisi storica del passato affianca quella dell’attualità. E qui è impossibile non citare la sede romana della Casa internazionale delle donne, da poco chiusa e che fino al 1960 era un carcere. L’oltraggio della sposa è un meccanismo che si concatena al presente e mostra in una prospettiva storica la condizione femminile tra cambiamenti culturali e immobilismo, tra verità, consapevolezza e perdurare del pregiudizio.
Il titolo del romanzo di Olita ci pone di fronte all’interrogativo se l’oltraggio si riferisca a quello compiuto da Adele Mori nei confronti del marito o se piuttosto non si tratti di quello da lei subito da parte di una Italia neonata che “decide” di  condannarla.
Certamente “meglio correre il rischio di salvare un colpevole piuttosto che condannare un innocente”, diceva Voltaire.
In questo romanzo sembra di vedere i luoghi, sembra di ascoltare la musica di Chopin, si sente l’influenza ma soprattutto l’amore dell’autore verso alcuni autori francesi come Voltaire, Montesquieu, Flaubert. E in effetti è impossibile non ricordare quello che per Stendhal è un argomento centrale, quello dell’incapacità virile dell’uomo, “fare fiasco”, come lo definisce in un capitolo del De l’Amour o in modo ancora più centrale e calzante nel suo primo romanzo Armance, è la dichiarazione di una debolezza maschile che non si può continuare a negare attraverso l’esercizio della violenza.
Come hanno notato tutti i relatori e per ammissione dello stesso autore, il romanzo dal quale discende L’oltraggio della sposa è Il resto di niente di Enzo Striano, Storia di Eleonora de Fonseca Pimentel e della rivoluzione napoletana del 1799, un grande romanzo storico pubblicato per la prima volta nel 1986.
Il romanzo di Ottavio Olita è un libro impossibile da liquidare con una lettura frettolosa. La fluidità della narrazione non deve trarre in inganno. È invece un romanzo denso che si interroga e ci interroga, che si propone molteplici intenzioni e oltre a romanzo storico, giudiziario, d’amore e di lente prospettica tra passato e presente è soprattutto un libro di impegno civile per costruire speranza e un futuro migliore. Anche questa guerra prima o poi finirà e dopo tanto odio il mondo conoscerà di nuovo un’epoca di pace. Dovrete essere pronte per allora. Pronte per far parte di quella schiera di donne, speriamo sempre più numerosa, che si batterà perché la cultura, l’arte, la musica vincano sulle armi e sull’ignoranza. Invidie, pettegolezzi, bassi tradimenti sono tutti frutti dell’ignoranza e della miseria.




martedì 26 dicembre 2017


LA MEMORIA E IL SACRO DI ANTONIO CASU A PIÙ LIBRI PIÙ LIBERI

http://www.portaleletterario.net/notizie/attualita/1002/il-viaggio-letterario-di-antonio-casu-con-la-memoria-e-il-sacro--


Giovedì 7 dicembre scorso, presso la sala Venere della “Nuvola”, nell’ambito della manifestazione “Più libri Più liberi”, la Nemapress edizioni ha presentato La memoria e il sacro. Appunti di viaggio nella letteratura del primo Novecento, di Antonio Casu, consigliere capo servizio e bibliotecario della Camera dei deputati, autore di innumerevoli pubblicazioni e uno dei maggiori studiosi di Thomas More. Sono intervenuti l’onorevole Gerardo Bianco, il professor Rocco Pezzimenti, e il professor Angelo G. Sabatini, coordinati dalla nostra Neria De Giovanni.

Non basterebbero 500 pagine per affrontare i temi così ben condensati e trattati nelle ottantasei pagine del libro di Antonio Casu, a riprova che per esprimere concetti complessi la quantità non è sufficiente. Occorrono invece capacità di concentrazione e analisi, conoscenza profonda della materia e sguardo ampio.
Questo studio prende in esame la letteratura apparsa negli anni della Grande guerra, della quale ci si appresta a celebrare i cent’anni dalla fine. Un momento di fondamentale transizione, di cambiamenti profondi. Un periodo nel quale appaiono ‒ tutti concentrati in pochi anni, tra il 1913 e il 1919 ‒ alcuni dei grandi capolavori della letteratura mondiale, dall’Antologia di Spoon River di Masters, a Alla ricerca del tempo perduto di Proust, dalla Contemplazione di Kafka, ai Racconti dublinesi di Joyce e infine il nostro Svevo, con La coscienza di Zeno. E sono questi gli scrittori analizzati dall’autore, non attraverso l’esegesi critica, quanto seguendo il metodo di una vera e propria ricerca del senso dell’esistenza, del filo rosso che unisce il tempo alle opere e questi autori che hanno avuto sì vite diverse e lontane, ma hanno respirato la stessa atmosfera.
Memoria e sacro sono due dei grandi totem dell’umano e certamente durante gli anni del primo Novecento pongono interrogativi pressanti e inderogabili. La memoria pone l’uomo di fronte al suo grande nemico, a ciò che lo rende finito, che gli toglie giovinezza e salute: il Tempo. Con la memoria si devono fare i conti per definire la propria identità e la propria esistenza. Ed ecco la galleria degli autori che scorrono insieme a molti altri nomi con un apparato di note denso ma mai invasivo, dando forma a un libro colto e raffinato, talvolta anche impegnativo, dal linguaggio serrato, che pone domande incalzanti e concetti su cui dover meditare per ritrovarci riflessi e scoprire quelle sofferenze che aggiriamo, l’angoscia che esorcizziamo, la solitudine che non ascoltiamo.
La prima parte del libro è divisa per paragrafi ma è strettamente collegata da un discorso unitario, dove chiari appaiono le similitudini tra Kafka e Master, tra Proust, Joyce e Svevo. Il pensiero confluisce nel paragrafo che chiude la prima parte, dove alla memoria fa da contraltare il mito. “Ogni epoca ‒ scrive l’autore ‒ ha i suoi miti, e a questa regola non sfugge la nostra. Ma i miti non sono solo fondativi della società, bensì anche fondati dalle stesse”. Il mito è la proiezione più fedele dei tempi che si vivono e ne mettono a nudo i punti deboli come il tipo di angosce e frustrazioni.
La seconda parte si incentra sul sacro, anzi più esattamente fa luce sul processo di rimozione del sacro che caratterizza i nostri tempi e che contraddistingue l’autentico dramma dell’uomo moderno. L’uomo contemporaneo spiegato esclusivamente in chiave economica e sociale ha restituito una visione del tutto fallimentare. Sfuggire ad alcune domande non è possibile. La proclamazione della “morte di Dio” non implica un’automatica rimozione del sacro che invece riaffiora in modo anche più prepotente attraverso altre vie. La sostituzione coatta del sacro con la ragione ha generato angoscia e disperazione. La ricerca di senso è inderogabile ed è stata nel tempo sostituita da altre possibilità ‒ psicanalisi, memoria, scienza ‒ senza tuttavia “tranquillizzare” l’uomo che urla nel quadro di Munch e dissolve la sua essenza umana diventando figura amorfa piena di terrore.
Le figure prese in esame dall’autore, Sartre, con il racconto Bariona o il figlio del tuono, e Döblin con l’Immacolata concezione, offrono una chiave di accesso sostanziale. I due autori, l’uno ateo e l’altro non ancora convertito, parlano della Natività e ciò che colpisce è la centralità della figura di Maria che attraverso il suo essere madre ci dona quella tenerezza di cui abbiamo bisogno per trovare pace.
Kafka, Nietzsche, Wagner ci parlano di uomini che dimenticano Dio, ma che non vogliono rimuovere né dimenticare. “La lotta per l’eradicazione del sacro dalla storia, dalla nostra esistenza, si rivela sterile”, scrive Antonio Casu. E’ come navigare in mare aperto dove molte sono le rotte da scegliere. “Il recupero della Memoria, la riscoperta del Tempo sono la manifestazione della ricerca, la ripresa di sentieri interrotti, di ciò che appartiene alla incomprimibile complessità della natura umana, di una ri-aggregazione delle sue metà dissociate. La dimensione della memoria del romanzo moderno è anche questo”.




martedì 3 ottobre 2017

L’attrice Antonella Blanche Uras   da Torralba a Roma inseguendo il suo sogno  









Antonella recita lentamente le parole, allungando lo spazio vuoto per contare il tempo. Ha occhi grandi e dolenti come se più forte della passione e del furore artistico ci fosse la rassegnazione di non sapere come fare, come vivere, come volere, come riuscire ad affermare se stessa e il suo talento.  Come se provenire da un luogo periferico equivalesse a una condanna.  Una condanna provenire da un'isola che già nel nome dice di essere isolata. La Sardegna è il luogo più lontano dell’Italia e del Mediterraneo. È un luogo di tesori e di bellezza che raggiungere è difficile ma  ancor di più è difficile lasciare.

È un luogo abituato a mettere le catene a causa di un retaggio che opprime e fa sentire  oppressi.  Così per un giovane sardo - e certo a maggior ragione per una donna e di non grandi possibilità economiche - nutrire delle aspirazioni comporta dover avere più energia, più determinazione. Ci vuole una grande forza per dirlo alla famiglia, fare accettare che si vuole scegliere “quella strada”. Una strada artistica che non è per tutti e non lo è per la figlia di una famiglia semplice che ha sempre vissuto di poco; una strada troppo lunga e impossibile ma che Antonella ha voglia di percorrere a ogni costo. 
Diventare attrice, interpretare ruoli, distaccarsi dal proprio corpo per rivestirsi di altre identità e di altre anime. Questo è il desiderio di Antonella, cominciato quel giorno alle scuole medie, quando aveva assistito a una rappresentazione teatrale. Niente di che, eppure si era svegliata in lei una passione così dirompente, così profonda da obbligarla a scegliere “quella vita” in modo irrevocabile. 
Dopo gli studi universitari in antropologia culturale, si iscrive alla “Scuola per l’arte dell’attore” diretta da Marco Parodi a Cagliari, un luogo dove conosce bravi maestri e riconosce persone simili a lei, con la stessa passione. Seguono altri insegnanti, Micheal Margotta, Roberto e Franco Graziosi, Juan Diego Puerta Lopez, Gabriella Rusticali, Giusy Devinu, Nicolaj Karpov, Francesco Manetti, Marcello Bartoli, Rossella Faa, Kevin Crawford, Guido de Monticelli e Coco Leonardi, e altre scuole come l’“Accademia dell'arte di Arezzo”. Dalla Sardegna si ritrova a Roma, dove Antonella studia e nel frattempo svolge mille lavori per mantenersi: commessa, telefonista in un call center, cameriera, assistente alla poltrona in uno studio dentistico... 
Le giornate non sono mai abbastanza lunghe e passano tra il lavoro e la ricerca estenuante di una scrittura. Lavora come figurante, pubblico nelle trasmissioni televisive, comparsa in qualche film, ma ottiene anche ruoli teatrali (a regia di Pierpaolo Conconi, Marco Parodi, Antonella Uras e Filippo Salaris, Ivano Cugia), cinematografici (a regia dell’austriaco Xaver Schwarzenberger) e in cortometraggi prodotti dalla New York Film Academy e dalla  Sardinia Media Factory. Soprattutto nel 2011 viene scelta in una piccola parte di un film di Leonardo Pieraccioni, “Finalmente la felicità”, dove interpreta un’infermiera sarda. Nel suo paese diventa una vera star ma lei si sente lacerata dentro perché sa che non è così semplice, non è detto che tutto questo le apra  automaticamente le porte dorate del cinema. La vita è molto difficile, specie per l’artista che più spesso vive tra un’apparenza piena di stelle e una sostanza dura, grigia, esacerbata. Antonella ha pensato anche di abbandonare tutto, così per un periodo è tornata in Sardegna, ma come lei dice: “Se non lo faccio sto male” e torna a Roma, riprende a studiare con Luciano Curreli, partecipa ai casting.  La vedremo presto nel film “Nico 1980” sulla storia della cantante dei Velvet Underground, una produzione italo-francese.  
Lei è una donna sarda resistente, fiera, che non demorde. Basta vederla recitare per entrare nel suo mondo antico e immenso: le terre della Sardegna e il mare che la circonda, i canti antichi e l’esperienza delle madri. La sua voce è capace di dipingere i sentimenti, di dare corpo alle suggestioni dei colori e dei profumi della sua isola. Chi l’ascolta, chi la vede recitare sulla scena non la dimentica.