venerdì 2 dicembre 2011

Un viaggio in Terra Santa descritto da Francesco Petrarca


Da: Il mondo della Bibbia,  Editrice Elledici, N. 75 Novembre-Dicembre 2004, pag. 57

Tra le opere latine di Francesco Petrarca, meno noto è “L’Itinerarium breve de Ianua usque ad Ierusalem et Terram Sanctam”, una lettera che descrive il percorso da Genova alla Terra Santa, spedita dal poeta a Giovanni di Guido Mandelli, suo amico a Milano, quando fu presso la corte di Giovanni Visconti, arcivescovo e signore della città.
Nel 1358, Giovanni decide di compiere un viaggio in Terra Santa e invita Petrarca ad accompagnarlo. Petrarca aveva viaggiato moltissimo attraverso l’Europa, affrontando disavventure e imprevisti di vario genere. In particolare, da ragazzino, subì lo shock del naufragio, durante il suo trasferimento dalla Toscana alla Provenza, mentre più tardi, nel 1343, vide una tremenda tempesta marina a Napoli. Spettacolo che lo fece giurare a se stesso di non mettere mai più piede su una nave.
L’antica paura del mare si risveglia. Declina l’invito, ma invia all’amico questa lettera, una vera e propria guida per il viaggio, che avrebbe dovuto supplire alla sua assenza.
Nel prologo all’Itinerarium, il poeta confessa la sua idiosincrasia in modo affettuoso e allo stesso tempo ironico: “La vergogna mi vieta di parlare, ma l’imperiosa verità mi ordina di dire e costringe che io mi perdoni”. Petrarca non sa se sia meglio morire in terra o in mare, ma è anche vero che alla morte non si sfugge e che si debba aspettarla sapendo che può sorprendere in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento, che questo è l’atteggiamento più virtuoso e virile per un uomo. Ma se qualcuno dovesse chiedergli di cosa lui abbia paura se non teme la morte, risponde: “Per certo io temo la morte stentata e la nausea , peggiore della morte”.
L’itinerario parte da Genova, costeggia tutta la penisola, supera lo stretto di Messina e volge a est, lungo la costa Ionica. A Otranto si stacca dall’Italia. Da qui giunge a Corfù, doppia il capo di Malea, si dirige verso le Cicladi, Rodi e, quindi, costeggia la Licia, la Cilicia e l’Isauria. Finalmente, dopo aver avvistato Tartùs, Tripoli, Beirut, Giaffa, Ascalon, ecco Gerusalemme, principale destinazione del viaggio, che però non finisce qui, ma si spinge anche in Egitto, fino ad Alessandria.
La disomogeneità con cui Petrarca descrive i singoli luoghi evidenzia i diversi generi delle fonti letterarie e geografiche a cui dovette ricorrere per redigere il testo, ma svela anche come alcune terre fossero a lui ben note, rispetto ad altre sconosciute. Molto preciso per l’Italia e soprattutto  per Napoli e i Campi Flegrei, tanto da riscuotere particolare fortuna proprio in ambiente campano, con la compilazione dell’Itinerarium su alcuni codici napoletani del XV secolo, diventa più vago nella descrizione della Grecia, con digressioni e rapidi accenni ai luoghi più importanti. Diventa nuovamente preciso in prossimità della Terra Santa, ma svolgendo un discorso più composito e ampio, più “letterario”, con l’evidente citazione dei passi evangelici, ma anche più carico d’emozione. I luoghi che videro svolgersi la vita e la passione di Cristo, infatti, sono descritti in modo più discorsivo, con un ritmo veloce, quasi accorato, ed è qui che assume pienamente forma di lettera affettuosa all’amico. Scrive che mentre le altre località necessitano della sua guida, perché potrebbero essere trascurate dall’ansia di giungere a destinazione, i luoghi della Terra Santa  è inutile descriverli, perché già ben presenti e conosciuti nel cuore di Giovanni e di tutti i credenti. Infatti, questi  sono indicati quasi sempre senza nome, attraverso gli episodi della vita di Cristo: “il fiume, il tempio, il monte, il sepolcro…”.   E, nonostante la difficoltà e le insidie di un viaggio condotto attraverso il deserto,  sollecita l’amico affinché si spinga fino in Egitto, sulle orme di Mosè e della fuga  di Giuseppe e Maria per sottrarre il Figlio a Erode. Proprio nel punto in cui la Sacra Famiglia si sarebbe fermata a riposare, racconta di una fonte la cui acqua è fresca e buona per i cristiani e più amara dell’assenzio per i “Saraceni”.
Petrarca elabora una guida archeologica, alternando alla suggestione del mito la franchezza del dato storico, senza mancare di nominare anche siti ormai scomparsi, come Luni, Pompei ed Ercolano, sempre attento a delineare brevemente ma con grande efficacia le peculiarità salienti, come i Bagni di Pozzuoli e la Solfatara, che lui stesso aveva visitato nel 1343. Di alcuni luoghi ne cita l’etimologia, come Genova da Giano, di altre se ne chiede l’origine, come di Scalea in Calabria. Chiarisce che il Mar Rosso prende nome non dal colore delle sue acque, ma dalle sue sponde rossastre, il “litore rubro” citato da Virgilio e da Dante.  Ricorda i luoghi d’origine dei grandi del passato, come Chio per Ippocrate, Lesbo per Teofrasto, Samo per Pitagora, Ascalon per Erode il Grande; il loro ultimo asilo, Cuma per Tarquinio il Superbo, Literno per Scipione e, infine, le tombe di Virgilio a Napoli e di Alessandro Magno ad Alessandria d’Egitto. E ancora, sono menzionati sia celebri luoghi di culto cristiani, come a Genova la chiesa di S. Lorenzo con le sue sacre reliquie, il monastero di S. Chiara a Napoli, la chiesa di S. Erasmo a Formia, il monastero di S. Caterina sul Sinai, sia quelli pagani, come il tempio di Giunone Lacinia a Crotone, o l’isola di Cipro consacrata a Venere.
L’elemento che più colpisce dell’Itinerarium è lo strettissimo legame con l’antichità classica, nel cuore del poeta mai trascolorata, ma anzi viva e presente. Petrarca cita esplicitamente molti autori latini come Livio, Virgilio, Orazio, Seneca, Lucano e Giuseppe Flavio, ma pure ad altri fa tacito riferimento, a dimostrazione che attraverso di essi il viaggio non è necessariamente azione fisica, esperienza diretta, ma anche indagine intellettuale, nutrimento spirituale. Questa antitesi tra viaggio fisico e viaggio mentale è proprio presente nella chiusura dell’Itinerarium, quando Petrarca paragona l’andare per terra e per mare dell’amico, con il suo solcare i fogli su onde d’inchiostro: due viaggi di diversa lunghezza, tre mesi per andare in Terra Santa, tre giorni per scrivere l’Itinerarium, ma ugualmente faticosi e certamente appassionanti.

Bibliografia:
- Petrarca nel tempo. Tradizione lettori e immagini delle opere, Catalogo della mostra (Arezzo, Sottochiesa di San Francesco, 22 novembre 2003 - 27 gennaio 2004), a cura di Michele Feo, Roma - Firenze, 2003;
- F. Petrarca, Petrarch`s guide to the holy land: itinerary tho the Sepulcher of our Lord Jesus Christ: Itinerarium ad sepulchrum Domini Nostri Yehsu Christi; with an introduction essay, translation, and notes by Theodore J. Cachey  Jr,  Notre Dame, Indiana 2002;
- Pétrarque, Itinéraire de Gênes à Jérusalem 1358, Traduction de Christophe Carraud et Rebecca Lenoir, Notes de Rebecca Lenoir, Grenoble, Millon, 2002;
- F. Petrarca, Itinerarium breve de Ianua usque ad Ierusalem et Terram Sanctam, Volgarizzamento meridionale anonimo, edizione critica a cura di Alfonso Paolella, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1993.


Hieronymus Bosch (L'Accidentato viaggio di Berto e gli altri)



Hieronymus Bosch
La cura della follia (1475-80)
Museo del Prado, Madrid.
Olio su tavola 48 x 35 cm

Intorno al tondo del dipinto c’è scritto: «Maestro, cava fuori le pietre della follia, il mio nome è Iubbert Das». Un chirurgo sta operando alla testa il povero Iubbert, il cui nome significa persona sempliciotta, che si fa imbrogliare facilmente.
Nel Medioevo pensavano che la pazzia fosse causata da pietre che nascevano nella testa, disturbandone il funzionamento, proprio come un meccanismo s’inceppa quando ci va a finire un sassolino.
Il chirurgo sta togliendo questi corpi estranei dal capo del povero Iubbert, ma il pittore s’inventa un’altra cosa: non dipinge pietre, ma tulipani di palude. Un fiore è stato già estratto ed è poggiato sul tavolo.
Bosch si prende gioco del dottore e gli piazza un imbuto sul capo, come se il suo sapere fosse vino travasato dentro un fiasco. Anche la monaca porta un curioso cappello: un libro che tiene in bilico e oscilla a ogni movimento, perché ai quei tempi la medicina  faceva ancora i primi passi e già allora consideravano da imbroglioni certe terapie troppo fantasiose. Infatti, la borsa appesa alla sedia e infilzata da un pugnale, allude all’unica cosa di buono che porterà questa cura: il denaro spillato dal chirurgo all’ingenuo paziente!

L'Accidentato viaggio di Berto e gli altri Giovanni Angelo Di Antonio (Fra Carnevale)



Giovanni Angelo Di Antonio (Fra Carnevale)
Presentazione della Vergine al tempio (1467 circa),
Museum of Fine Arts, Boston.
Olio e tempera su tavola  146,5 x 96,5 cm

Questo dipinto è opera di un pittore misterioso: non sappiamo con certezza neppure il suo nome! Probabilmente si chiamava Giovanni Angelo di Antonio, ma altri pensano sia Bartolomeo Corradini con il soprannome di Fra Carnevale, altri ancora si tengono sul vago e lo chiamano Maestro delle tavole Barberini.
Quando Maria Vergine compì tre anni, fu portata dai genitori al Tempio per essere consacrata al Signore; eccola di spalle, vestita di blu.
Il pittore trasporta quest'episodio, avvenuto tanti secoli prima, ai suoi tempi. La chiesa si apre allo sguardo invitandoci a entrare all'interno, fino in fondo, davanti all'altare, a curiosare tra le colonne, ad affacciarci alle finestre piene di cielo. Davanti alla chiesa indoviniamo una piazza: probabilmente ci troviamo a Urbino.
Sul sagrato, seduti per terra, tre personaggi giocano ai dadi. Alcuni di loro hanno un piede o un ginocchio fasciati, forse colpiti da una malattia che provoca ulcere alla pelle, come la lebbra, assai diffusa a quei tempi. Sono quasi completamente nudi in mezzo a una folla di persone riccamente vestite di panni colorati. In questo modo il pittore esprime la povertà e l'emarginazione. Vicino hanno le uniche cose che posseggono: una brocca, una ciotola, un barilotto, un sacchetto con del cibo. E un cane fa compagnia.
L'unica che rivolge loro uno sguardo dolcissimo è la mamma della Vergine, Sant'Anna, l'incantevole figura vestita di verde.

L'Accidentato viaggio di Berto e gli altri - Raffaello Sanzio



Raffaello Sanzio
La Trasfigurazione (1518-20)
Pinacoteca del Vaticano.
Olio su tavola 405 x 278 cm

Questa è l’ultima opera del grande Raffaello. Morì poco prima di finirla, così fu portata a termine dal suo allievo più caro, Giulio Romano.
Il dipinto è diviso in due parti. In alto, la Trasfigurazione: una notte, sul monte Tabor, Cristo si manifestò in gloria agli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni. «Il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro i profeti Mosè ed Elia, che conversavano con lui», racconta Matteo nel Vangelo.
Nella parte inferiore, quella su cui lavorò Giulio Romano, c’è un ragazzo sostenuto dal padre. È nel pieno di una crisi epilettica. Il suo viso è contratto, gli occhi voltati all’insù, le labbra violacee, il corpo irrigidito dallo spasimo, scosso da movimenti che non riesce a controllare.
In cerchio, una folla di persone: qualcuno indica Cristo, qualcun altro il ragazzo. Sembrano voler confrontare il divino e il terreno, l’eterno e il mortale, la gioia e il dolore. Cristo dall’alto risplende, rischiara gli uomini immersi nell’oscurità. È luce piena di speranza e d’amore.

L'Accidentato viaggio di Berto e gli altri - Jusepe de Ribera

 
Jusepe de Ribera
Fanciullo zoppo (1642)
Musée du Louvre, Paris.
Olio su tela  164 x 92 cm

Jusepe de Ribera, detto lo «Spagnoletto», perché nato in Spagna, era chiamato anche «il tenebroso» per via dei suoi quadri cupi, pieni di ombre e colori scuri, con figure che sembrano sbucare dal buio all’improvviso. Venne a vivere in Italia e a Napoli fu chiamato dal viceré. Qui osservò i colori vivaci, il chiasso giocoso nei vicoli… A Napoli hanno colore perfino gli odori. Così, cambiò modo di dipingere e si aprì alla luce: grandi pezzi di cielo azzurro e nuvole bionde.
Alla sua epoca esistevano già gli «scugnizzi», così si chiamano i bambini poveri di Napoli. Eccone uno. De Ribera sposta la linea dell'orizzonte molto in basso, così abbiamo l'illusione che il ragazzo ci stia guardando da un punto più alto del nostro. È voltato di tre quarti, come si usava nei ritratti dei nobili e dei ricchi signori. Sta fermo, impettito contro il cielo e sorride, pieno di orgoglio, spavaldo, perché a lui la vita non fa paura, l’affronta a viso aperto, portando con sé la fatica della povertà. In mano tiene un foglio che mostra ai passanti: «Fammi la carità per amore di Dio». Ha un piede malformato, ma lui non ha bisogno del bastone per camminare; lo porta invece appoggiato alla spalla, come un piccolo guerriero con la sua lancia.

L'Accidentato viaggio di Berto e gli altri Masaccio







Masaccio
San Pietro guarisce un paralitico con la sua ombra (1426-27)
Cappella Brancacci, Santa Maria del Carmine, Firenze.
Affresco 230 x 162 cm

L’uomo con il cappellino giallo non può camminare. Per muoversi si trascina con le mani usando piccole pedane di legno, in modo da non sbucciarsele. La sua malattia è forse la poliomielite, che non ha permesso lo sviluppo delle gambe. È povero e sta tutto il giorno seduto per terra ad osservare i passanti con i suoi compagni. Vede il mondo dal basso, come i bambini, che guardano la fretta della gente per strada, mai il tempo di rispondere a un sorriso. Qualche volta, però, stare fermi a osservare permette di notare qualcosa che agli altri sfugge. Ecco, sta passando San Pietro. Ha smesso di fare il pescatore. Ora gira le città per raccontare la sua straordinaria esperienza con Gesù.

L'Accidentato viaggio di Berto e gli altri Giotto



Giotto
Scene della vita di Cristo. Natività (1304-06)
Cappella degli Scrovegni, Cappella Arena, Padova.
Affresco 200 x 185 cm

In una capanna appoggiata alla parete rocciosa, la Madonna è aiutata dalla levatrice. È appena nato Gesù e, dopo averlo fasciato, lo sta mettendo a dormire nella culla-mangiatoia. Madre e figlio si guardano. Giuseppe si sta appisolando, stretto nel suo mantello giallo. Il bue e l’asinello guardano mansueti. Gli angeli volano come rondini.
Due pastori sono arrivati fin lì con il gregge per assistere al grande evento. A quello di destra manca metà del braccio e ha una grossa cicatrice a forma di stella. Nell’antichità spesso le infezioni potevano essere curate solo amputando l’arto malato.
Sappiamo dai Vangeli che i primi a essere avvertiti della nascita di Gesù e andare ad adorarlo furono le persone più povere, i pastori. Giotto ha voluto fare di più: li ha dipinti di spalle, in modo che tutti noi che guardiamo ci troviamo dietro di loro, in seconda fila, dopo i più umili e i più sfortunati, perché essere belli, sani, ricchi e favoriti dalla sorte non fa guadagnare alcun posto d’onore per partecipare al Grande Mistero.

L'Accidentato viaggio di Berto e gli altri Velázquez



Velázquez
Il ragazzo di Vallecas (1642-45)
Museo del Prado, Madrid.
Olio su tela 107 x 83 cm

Velazquez era il pittore della casa reale spagnola. Ha ritratto tutti: re, regine, nobili, vecchi, bambini, papi, nani e la gente umile che incontrava per le strade.
Questo ragazzo è forse Francisco Lezcano, il buffone di corte. Appare, infatti, anche in un altro dipinto insieme al suo signore ancora bambino, il principe Baltasar Carlos.
Non è povero: porta dei bei vestiti di panno e una camicia vaporosa. Soffre di una malattia che non lo farà crescerà mai, rimarrà sempre bambino nell’anima e nel corpo. Chissà quanti anni ha in questo quadro. Chissà a cosa sta pensando. È immerso in un mondo tutto suo, dove ogni cosa diventa un’altra cosa, con significati misteriosi, ma che sarebbe bello per noi poter decifrare. Tra le mani tiene uno strano oggetto: sarà un pezzetto di legno o un sasso trovato lungo il cammino? Forse è scappato nella grotta per non farsi trovare, per stare finalmente un po’ da solo con i suoi sogni. È nel fresco dell’ombra, mentre fuori brilla il lago e l’aria è velata per il caldo. Sembra guardarci sorpreso e sorride, scalcia con la gamba indispettito perché abbiamo scoperto il suo rifugio segreto.

L'Accidentato viaggio di Berto e gli altri Andrea Mantegna


Andrea Mantegna
La Corte di Mantova, particolare. (1471-74)
Camera degli Sposi, Palazzo Ducale, Mantova.
Affresco

La famiglia dei Gonzaga, signori di Mantova, è in posa per essere immortalata su un affresco, come in una foto di gruppo. Per scattare una fotografia basta un attimo, mentre per un dipinto occorre molto tempo. Così ciascuno si distrae, si muove, guarda da un’altra parte. E il pittore coglie di ciascuno un momento, quel momento che gli piace di più.
Al centro, la marchesa Barbara di Brandeburgo muove solo un sopracciglio perché sta guardano il marito, Lodovico II. È curiosa: cosa gli starà dicendo quel signore, venuto da Roma? Una bella notizia: il figlio Francesco è stato ordinato cardinale! Il cane sotto la sedia è Rubino, che non lasciava mai un attimo il suo padrone.
Intorno, ci sono alcuni dei dodici figli. Paolina è di profilo e con una mela. Porta un pesante mantello sulle spalle per nasconderle la gobba, una malattia ereditaria delle ossa che colpì quasi tutti i membri della famiglia, come il fratello, Lodovico, il bambino pallido e magro vicino a lei. Dietro il padre c'è Gian Francesco e dietro la madre, Rodolfo. La bella fanciulla vestita di bianco è Barbara. Davanti a lei c'è la nana di corte. È molto emozionata all'idea di essere ritratta da un pittore celebre come il Mantegna, così stringe nervosamente un nastro bianco, cercando di apparire disinvolta. È l'unica che guarda verso di noi, anzi sembra non volerci perdere un attimo di vista, come a ordinarci di fare silenzio, di comportarci bene davanti ai suoi amati e nobili signori. 



L'Accidentato viaggio di Berto e gli altri - Pieter Bruegel



Pieter Bruegel
La battaglia tra Carnevale e Quaresima (1559)
Kunsthistorisches Museum Wien, Vienna.
Olio su tavola 118 x 164,5 cm

Il carnevale è una festa antichissima: in questi giorni non esistevano differenze tra ricchi e poveri, tra sani e malati, tra pazzi e sensati. E se la follia è libertà, tutti volevano fingersi matti e abbandonarsi almeno per un giorno alla gioia senza divieti.
Bruegel dipinge la piazza di una città medievale, affollata di personaggi. In primo piano, l’uomo grasso a cavalcioni di una botte impersona Carnevale. Combatte contro Quaresima, un uomo magro e triste seduto su una seggiola di chiesa. L’uno è armato di spiedo in cui sono infilzati succulenti pezzi d’arrosto, l’altro risponde a colpi di pala da fornaio con dei pescetti secchi. Il primo è seguito da persone vestite in maschera che suonano e danzano, il secondo da ragazzi che agitano le raganelle e dal sagrestano con l’acqua benedetta del sabato santo.
Inoltre, una folla di persone. Dalla chiesa escono i fedeli, alcuni di loro si sono portati le sedie da casa per paura di rimanere in piedi. Altri assistono a spettacoli di piazza, delle donne fanno le pulizie di primavera, i bambini giocano fra di loro, su una bancarella si vendono grandi pesci.
Tra questi, i poveri chiedono l’elemosina fuori dalla chiesa, mentre poco lontano un gruppo di lebbrosi stanno isolati e gli storpi si arrangiano come possono per camminare. A carnevale tutti vogliono mascherarsi ed essere quello che non sono, ma i poveri e i malati non si travestono mai.

L'Accidentato viaggio di Berto e gli altri - Jacques Callot


Jacques Callot
Il gobbo (1616)
Musée des Beaux-arts, Nancy, n. 403. M 765- L 424; I/II.
Acquaforte con ritocchi a bulino 6,65 x 8,45 cm

L'incisore francese Callot, in Italia, partecipò alle «giostre dei gobbi», una festa di piazza fiorentina in cui tutti gli artisti avevano la gobba. Molti disabili si guadagnavano da vivere proprio sfruttando la loro infermità per divertire la gente.
Questo gobbo disegnato da Callot suona la cornamusa e aggrotta la fronte, rapito dalla melodia. Ha una deformazione alla spina dorsale, che è vistosamente curva. In poche linee dense, l'artista è riuscito a rendere lo sguardo ironico e allo stesso tempo malinconico del musicista che sembra camminare in un paesaggio fatto di niente, dove solo la sua ombra gli fa compagnia.
In una delle venti stampe con i personaggi gobbi, appare l'autoritratto di Callot. Lui la gobba non l'aveva, ma sentiva per queste persone talmente tanta amicizia e simpatia dal voler così dimostrare la sua solidarietà.



L'accidentato viaggio di Berto e gli altri. Introduzione


L'ACCIDENTATO VIAGGIO DI BERTO E GLI ALTRI 
Dieci percorsi sulla disabilità 

a cura di Maria Milvia Morciano

Città Aperta Edizioni, collana Junior


 

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Dieci grandi opere d'arte del passato interpretate da dieci scrittori:
F. Albertazzi, S. Boero, T. Buongiorno, R. Denti, E. Detti, A. Gerbino, A. Nanetti, E. Nava, R. Piumini, C. Savini;
e da cinque illustratori contemporanei: A. Abbatiello, A. Cimatoribus, E. Luzzati, S. Fatus, L. Scuderi.
Illustrazione di copertina: R. Innocenti





 INTRODUZIONE

Che cosa hanno in comune l'arte e la disabilità? Niente, si dirà. Anzi, mentre l'arte si identifica con la bellezza, la disabilità spesso è caratterizzata da malformazioni fisiche per nulla belle a vedersi.
Pieter Bruegel, un pittore fiammingo vissuto nel XVI secolo, sosteneva che l'artista veramente bravo deve saper dipingere il brutto come se fosse bello. I suo quadri, infatti, sono affollati di storpi, deformi, ciechi e folli. Come Bruegel, artisti di tutto il mondo, e in ogni tempo, hanno rappresentato nelle loro opere persone disabili, consentendoci, oggi, di saperne di più sul modo in cui esse venivano trattate nelle epoche passate.
In verità, i disabili non hanno mai ricevuto un buon trattamento. Su di loro se ne sono sempre "raccontate" tante, fino al punto di accusarli di stregoneria oppure di essere posseduti dal demonio. Tutta colpa dell'ignoranza, dei pregiudizi e della paura di ciò che è diverso.
Il "Gobbo di Notre Dame" è un bel cartone animato prodotto dalla Disney che si ispira al celebre romanzo dello scrittore francese Victor Hugo. Racconta la storia di Quasimodo, il campanaro della cattedrale di Parigi che, a causa delle sue malformazioni, vive nascosto e in solitudine, osservando la vita degli altri dai tetti di Notre Dame.
Quasimodo ha capelli ispidi e rossi, due gobbe, un occhio cieco e l'altro nascosto da un'enorme verruca, mani e piedi deformi, pochi denti ed è sordo a forza di suonare le campane che gli rimbombano nella testa. È così deforme e brutto da mettere paura.
Siamo nel Medioevo. Il 6 gennaio è festa, uomini, donne e bambini si riversano per le strade e danzano, ballano e banchettano, aspettando il momento più importante della festa: l'elezione del "re dei folli". La corona andrà a chi fa le smorfie più impressionanti. Quasimodo non resiste alla tentazione, così abbandona la solitudine della torre campanaria per scendere in piazza e mescolarsi tra la gente. Partecipa al gioco e vince: il suo ghigno è davvero terrificante! La folla lo acclama per la sua "bellissima faccia spaventosa", ma quando si accorge che il nuovo "re dei folli" non fa boccacce ma si mostra semplicemente così com'è, la gente si spaventa e comincia a urlare: "Cattivo! Cattivo!".
Quasimodo non è per nulla cattivo, come mai lo accusano in questo modo? Nell'antichità si pensava che il bello fosse sempre buono e il brutto, invece, cattivo. I disabili come Quasimodo venivano derisi, disprezzati e discriminati; non era loro consentito svolgere alcuni lavori o accedere alle cariche pubbliche.
I bambini nati con malformazioni spesso venivano abbandonati e qualche volta addirittura uccisi. Anche quasimodo era stato abbandonato per la strada e se non l'avesse raccolto l'abate Frollo chissà che fine avrebbe fatto. Le donne che passavano lo guardavano spaventate e disgustate, si facevano il segno della croce temendo il malocchio.
Molte superstizioni erano legate alle minoranze fisiche e mentali. I pregiudizi esistevano anche perché le cause di numerose malattie erano sconosciute e per giustificarle si davano spiegazioni fantasiose, legate al mondo dell'occulto e del mistero. La follia, per esempio, era legata all'influenza della luna o dei pianeti, oppure a pietre che nascevano dentro la testa all'improvviso o alla possessione del maligno. Gli zoppi erano maledetti perché si diceva fossero simili a Lucifero, che si ruppe una gamba precipitando dal Paradiso. Essere ciechi, sordi, storpi era considerata una punizione di Dio.
Oggi, per fortuna, conosciamo le cause di molte malattie e sappiamo che minorazioni fisiche e mentali non hanno niente a che vedere con le maledizioni e i diavoli. La ricerca scientifica ha fatto grandi progressi ed è, talvolta, in grado di prevenire e curare alcune di queste malattie, anche se i passi da fare sono ancora tanti. All'epoca di Quasimodo, invece, anche le cure si basavano su pratiche fantasiose, con il solo risultato di peggiorare la condizione del malato: i medici, per esempio, cercavano di "purificare" il corpo malato di un paziente con purghe, clisteri, vomitativi e perfino salassi, questi ultimi consistono nell'applicazione di sanguisughe sulla pelle, animaletti che succhiano il sangue. Altre volte si ricorreva addirittura all'esorcismo.
Alla fine del Medioevo molti malati psichici furono arsi sul rogo, accusati di stregoneria. Folli, storpi, muti e ciechi divennero i capri espiatori di tutto ciò che di brutto accadeva, in quanto deboli, indifesi e soprattutto ritenuti inutili per la società. In realtà. al contrario, tanti erano eccezionali pittori, musicisti, artigiani e perfino acrobati. Ma proprio per questo, gli altri, i "normali", sospettavano di loro: potevano essere così capaci nonostante gli impedimenti fisici?
Il pregiudizio era legato all'ignoranza, barriere dure da abbattere con le quali dobbiamo fare i conti ancora oggi. Coloro che non somigliavano alla maggioranza delle persone erano "diversi" e quindi pericolosi. Si aveva paura, insomma, proprio di chi era più debole e indifeso! Tutto ciò è possibile "leggerlo" nei quadri. Il pittore, infatti, osserva la realtà, la riproduce e la trasforma in arte. Nei quadri i disabili erano scelti per rappresentare la corruzione, il male e il vizio. Nel Medioevo il malato era comunemente raffigurato nell'atto del ricevere l'elemosina o mentre ottiene la guarigione attraverso un miracolo. La Chiesa, che si occupava di assistere poveri e malati, con quelle immagini voleva dare l'esempio che ogni buon cristiano doveva seguire.
Nonostante questo impegno e la fondazione di ospedali e confraternite di solidarietà, le cose per i disabili non migliorarono nel corso dei secoli successivi. Anzi, le tante guerre che insanguinavano il mondo di allora, incrementavano il numero dei disabili per le mutilazioni che gli uomini subivano in battaglia, ma anche per le epidemie, la povertà e la denutrizione che seguivano ogni conflitto.
Le malattie infettive, come la lebbra e la peste, che esplosero nel 1300 in Europa, portarono ancora di più i disabili all'emarginazione. I lebbrosi, per esempio, dovevano attenersi a regole rigidissime: giravano suonando campanelli per fare udire da lontano il loro arrivo; non potevano toccare nulla con le mani ma solo con un bastone; dovevano parlare ai sani stando controvento per non infettarli ed era loro vietato camminare in strade strette dove rischiavano di toccare altri passanti. Con il tempo, la massa dei poveri e degli emarginati diventò sterminata. Le città erano piene di mendicanti e furono compiute repressioni violente nei loro confronti. Ma si diffusero anche opere pie, ospizi e ospedali che si curavano di loro.
A partire dal 1500, nelle opere d'arte compaiono ancora più frequentemente poveri, denutriti, malati e storpi. L'artista li dipingeva per rappresentare il dolore e la sofferenza, ma anche perché quella era la realtà e non si poteva far finta di non vederla. I più raffigurati erano i nani, che spesso avevano un destino meno amaro perché venivano accolti nelle corti dei nobili come buffoni per divertire i signori. Il loro aspetto simile a bambini non cresciuti divertiva, non faceva paura. Venivano mostrati come una curiosa rarità della natura, come accadeva nei circhi fino a non molto tempo fa. Anche quando erano accettati, comunque, nessuno concedeva ai disabili piena dignità e rispetto. Rimanevano sempre "diversi".
Sono passati i secoli ma i pregiudizi resistono: si fa ancora fatica ad accettare la presenza di un disabile a scuola, nel luogo di lavoro o in televisione. Soltanto tra il 1971 e il 1975 l'assemblea delle Nazioni Unite ha riconosciuto universalmente i diritti dei disabili.
Per aiutare la gente a superare questi pregiudizi, per abbattere quelle che vengono chiamate "barriere culturali", la Comunità Europea ha dichiarato il 2003 Anno europeo delle persone disabili e ha organizzato in tutto il Continente una serie di conferenze, manifestazioni e attività varie.
Con questo libro vogliamo contribuire all'abbattimento di qualche barriera culturale, stimolando i lettori a guardare oltre l'aspetto fisico, come si fa guardando un quadro, perché in ogni uomo c'è un'opera d'arte da scoprire. Abbiamo scelto dieci capolavori realizzati tra il XIV e il XVII secolo in cui sono raffigurati i disabili. Ogni immagine è accompagnata da una didascalia, un racconto e un'illustrazione. La didascalia aiuta a comprendere quello che ha voluto esprimere il pittore, i racconti e le illustrazioni, invece, entrano nell'opera d'arte e la reinterpretano, facendola rivivere con la fantasia.

J. Conrad. Il compagno segreto e Ulisse

Ulisse: tra ordine e solitudine


Ulisse non ha certo bisogno di presentazioni. L’uomo per eccellenza o, piuttosto, l’ideale proiezione dell’umano moderno. E così Ulisse è l’eroe buono per tutte le stagioni, l’uomo “prêt-à-porter”, la creta plasmabile  su ogni ideale letterario e perfino sulle sue convenzioni. 
Come sottrarsi, dunque, alla tentazione di ripercorrere questi soliti binari, alla ricerca del punto di scambio tra le rotaie? 
Ulisse o l’inganno. Ulisse o la vera solitudine: quella sazia di se stessa. 
I compagni di mare aleggiano sullo sfondo senza nome. Scompaiono, muoiono, lasciati ai margini della scialuppa, con i tappi nelle orecchie restano innocenti del canto delle Sirene, privi di conoscenza e quindi di tensione. Prendono corpo soltanto per la loro condizione di vittime del bisogno: la fame, che li fa piangere e li rende prigionieri. Oppure lottano con i fantasmi marini impigliati tra vele e gomene, ignari che nel ventre del nuovo cavallo di Troia  - la nave, la zattera - si agiti l’anima  clandestina di Ulisse. Trascinati sull’orlo delle porte dell’Erebo, come di Scilla dove, dice Circe, “voi dovete drizzare la concava nave, splendido Odisseo”. 
Il capitano del “Compagno segreto” chiama “Erebo” la nera collina di Kohring, l’isola contro cui, pur di salvare il suo ospite clandestino, punta la prua della nave. E’ un ordine che dà contro il silenzio atterrito dei suoi marinai: “Era piombato un tale silenzio sulla nave, che avrebbe potuto essere una barca di morti  che procedesse lentamente sotto la porta stessa dell’Erebo.” 
E vince. 
Lasciato il clandestino alla sua sorte, il capitano ritrova la sua nave: “Nessuno al mondo si sarebbe frapposto fra di noi gettando un'ombra sulla strada della nostra silenziosa conoscenza e della nostra muta affezione, la perfetta comunione di un marinaio con la nave…” 
Come Ulisse il Capitano affronta la sfida da solo, estraneo ribelle a un tentativo di ordine che pure il mare rifiuta, sovverte, agita, ma non tradisce.

J. Conrad. Il compagno segreto e Giona




Giona: tra fuga e profezia

Giona si nasconde nel ventre della nave per sfuggire la voce di Dio. Aveva preso il largo, in direzione opposta a Nivive, città empia che avrebbe dovuto avvertire poiché l'ira del Signore si sarebbe abbattuta su di essa e l'avrebbe punita. 
Ma Dio lo trova e scatena una furiosa tempesta. 
Il mare si agita ululando, con flutti paurosi che si innalzano fino al cielo e rischia di spezzare lo scafo della nave. I marinai impauriti invocavano ciascuno il proprio dio e gettano in mare quanto hanno sulla nave per alleggerirla. Non Giona, che, sceso nel luogo più riposto della stiva, dorme profondamente. La tempesta non si placa così i  marinai chiedono alla sorte chi sia la causa di tale disastro. La sorte ricade su Giona, che confessa la sua colpa e offre se stesso in sacrificio.  Lo gettano in mare. 
Leggatt, nel racconto di Conrad,   è l'anti-Giona. Salva la nave durante una tempesta fissando una vela di trinchetto. L'ultima vela. Ma uccide anche un uomo. Leggatt è la colpa, la maledizione, il sacrificio. E' stata la vela di trinchetto a salvarvi”, dice il capitano al comandante della Sephora che ricerca il suo primo ufficiale  per punirlo. E' stata la mano di Dio”, risponde  quello. 
Una balena inghiotte Giona. Per tre giorni e tre notti vede solo le tenebre intestine del grande animale che, infine, lo restituisce alla luce e lo sputa su una spiaggia. Dio lo ha salvato, lo ha liberato. 
Leggatt si fa inghiottire da una nave sconosciuta. Un capitano gli offre aiuto. 
Dopo averlo nascosto nella nave infine è calato in mare per scontare la sua punizione: un uomo libero, un orgoglioso nuotatore” che, solo, sceglie se stesso e “un nuovo destino”



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J. Conrad. Il compagno segreto e Orfeo




 Orfeo: andata e ritorno per un'iniziazione

“Narrano che egli ammaliasse col suono dei canti le dure rocce dei monti e le correnti dei fiumi”: così, del magnetico Orfeo nelle “Argonautiche” di Apollonio Rodio. 
La forza della musica: con essa aveva piegato le ombre infernali che gli avevano sottratto l'amata Euridice. Cos'è, infatti, la musica se non l'unico strumento capace di annullare ogni strepito per guadagnare il silenzio che abita dentro l'anima? 
Orfeo conosceva bene la notte, come il giorno, riuniva in sé Dioniso e Apollo, il furore e il cielo: la grande contraddizione, il paradosso. Non vi era polarità di opposti (come credeva Nietzsche), era trasfusione di opposti. E in questa tensione morì straziato. 
Partecipò alla spedizione per la conquista del vello d'oro, perché nessun mortale poteva conoscere meglio di lui le rotte, lui che aveva conosciuto la via che arrivava agli Inferi e quella del ritorno ai vivi. Rappresentò il compagno segreto di ciascun marinaio, cantando, incitandoli, mostrando loro l'origine più remota delle cose e i loro segreti: così al suono della lira d'Orfeo gli eroi battevano coi loro remi l'acqua impetuosa del mare, e s'infrangevano i flutti. 
Orfeo rimane solo, pur partecipando al mondo. In una storia di mare rappresenta ogni navigante con se stesso e il suo desiderio, una strana malinconia compiuta e conchiusa, come di chi sa già. Come una nave ai marinai, il tempio dei misteri orfici è accessibile solo agli uomini, come un viaggio senza orizzonti di terra, per soli iniziati. 
Raccontano che, dopo la perdita di Euridice, Orfeo non volesse più donne accanto a sé: queste si vendicarono, lo uccisero, gettarono il suo corpo smembrato in mare. Una nuova iniziazione. "Un segnale di salvezza davanti agli occhi...".  Ma la sua testa navigò sui flutti verso terra. Procedeva come un cappello sul pelo dell'acqua. E continuava a cantare.


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Kafka: Racconti - Prometeo - L'avvoltoio

Domatori di rapaci

Tra i racconti, quello intitolato “Prometeo” sembra non apparire, sembra rimanere sospeso in una decifrazione le cui chiavi  di accesso sono più oscure della leggenda stessa. Kafka riferisce le variazioni del mito sull’eroe che rubò il fuoco, la luce, agli dei.
Quattro leggende riassunte in poche righe, come appunti interrotti. 
La prima è quella tradizionale: “…fu inchiodato al Caucaso, …e gli dei gli mandavano aquile a divorargli il fegato sempre ricrescente”.
Le ultime tre non sembrano diversi epiloghi del suo supplizio, ma la concatenazione dello stesso evento. 
- Prometeo per il dolore si ritrae sempre più nella parete di pietra, fino a diventare roccia egli stesso.  
- Prometeo è dimenticato da tutti, dagli dei e dalle aquile. E’ dimenticato il suo tradimento.
- Tutti si stancano  di lui che non ha più motivo di essere; anche la sua ferita si stanca di sanguinare e così si richiude.
L’enigma rimane per Kafka la montagna rocciosa. La leggenda contiene sempre un fondo di verità, scrive, e riesce a spiegarsi solo nell’inspiegabile: anche lui vuole dimenticare Prometeo, senza permettergli salvezza. E’ del tutto trascurato, infatti,  l’epilogo della storia, raccontato da Eschilo: Eracle  libera il titano. Il semidio si fa tramite degli dei e degli uomini e riconduce l’equilibrio perduto.

Due anni dopo, nel 1920, in  un secondo, brevissimo racconto, “L’avvoltoio”, appare un uomo che descrive  in prima persona il suo supplizio. E’ Kafka-Prometeo.
Non un'aquila lo tormenta, ma un avvoltoio.
Ecco, un tizio-Eracle passa curioso e si offre di aiutarlo;  va a procurarsi una doppietta per uccidere l’animale.
Ma l’avvoltoio-aquila  capisce e subito si slancia in un affondo attraverso la bocca dell’inerme, spingendosi  dentro le sue viscere: “sentii, liberato, che nel mio sangue straripante, di cui erano piene tutte le cavità, l’avvoltoio affogava irrimediabilmente”.
 
La liberazione di Prometeo è senza ritorno. E’ concessa al prezzo della vita. Ma insieme gli è regalata anche la vendetta.

Kafka: "Poseidone"

Il complesso del figlio cadetto

Kafka ha infilato il dito nella piaga. Ha lacerato quel velo di ritegno che da sempre attutisce i pettegolezzi che girano intorno al terribile dio degli abissi marini. Poseidone ricorre a ogni  espediente per somigliare al fratello maggiore. Lo imita in tutto: si sposa o amoreggia con un numero illimitato di ragazze, si trasforma nelle forme più bizzarre. Niente da fare: non è lui il dio più importante; è condannato a stare un gradino più in basso di Zeus, padre di tutti gli dei e degli uomini.
E si tradisce, disvela una sorta di malcontento, una specie di nostalgia… Non è vero, forse, che ogni onda finisce sempre per tornare a terra? 
Quando assume forma d’animale si fa ariete, cavallo, toro. E quando, dopo aver sposato Anfitrite, diventa re del mare, s’inabissa seguito da un corteo di creature che gli ricordano, con la loro forma ibrida e dimezzata, la terra, il regno che non potrà mai avere: ippocampi, centauri marini, tritoni…
La tradizione lo raffigura con una nera criniera e il tridente, selvaggio e terrifico.  Kafka nomina il suo bronzeo torace, ma lo immagina un po’ bolso. Non lo dice per discrezione, ma si vede che lo pensa. 
Poseidone amministra le acque. Un lavoro sedentario e noioso, che lo impegna totalmente, perché le pratiche da sbrigare sono sempre tante, tra correnti marine, tempeste e mari che non si fermano mai.Unica distrazione sono brevi  viaggi da  pendolare nell’Olimpo, a render onori al fratello. Torna sempre contrariato e si rimette a testa bassa sulle “bagnate carte”. 
Come tutti gli insoddisfatti, rimette nel futuro un po’ di pace. Aspetta la fine del mondo. Allora sì avrà requie e potrà permettersi un “viaggetto circolare”.

http://www.compagnosegreto.it/numero3/libro9l.htm

Kafka: "Nella colonia penale"

Il  sarto della sorte


Perché mai un uomo dovrebbe consacrare ingegno e perizia al servizio di una macchina, una macchina di morte? 
L’ufficiale protagonista di “Nella colonia penale” non ce lo spiega. Il dispositivo è perfetto, a parte un sordo  cigolio,  realizza giustizia e regala certezza, o  per lo meno così lui crede, innamorato del giocattolo ereditato dal suo comandante. Si preoccupa che tutto sia perfettamente oleato, che non ci siano intoppi, che scorra liscio, che la rappresentazione abbia luogo. Ne parla con entusiasmo, come fosse una meravigliosa opera d’arte, un capolavoro di bellezza.
Al di là delle metafore che hanno intravisto gli esegeti kafkiani, la storia, quella vera, ci racconta di altri mille architetti, mille montatori di ingranaggi mortiferi. Nessuno di loro saprebbe risponderci veramente, al di là di una logica ma irreale  retorica sulla giustizia. 
La nostra è perciò una domanda destinata a non ricevere  risposta, anche se ci volgiamo al passato, alla ricerca dell’esempio primigenio.  
Prendiamo Procuste-Damaste, ad esempio, il “tenditore-costrittore”. Il fabbro  infernale che sbarrava la via per Atene ai viandanti, che li riduceva  a misura di un letto, sempre troppo lungo o troppo corto,  con l’amputazione delle estremità dei  più alti, o la trazione delle membra dei più bassi. Nessuna fonte ci  spiega il motivo del perché lo facesse.
Sappiamo solo che ciascuno di questi artisti crudeli, sarti esperti e ricamatori di carni umane,  finì vittima della propria  macchina ingegnosa. Arriva sempre, prima o poi,  un Teseo liberatore. 

http://www.compagnosegreto.it/numero3/libro9h.htm

Kafka: "Il silenzio delle sirene"



 

L'equivoco dell'inganno

“Il silenzio delle sirene” parte da uno degli episodi più seducenti dell’Odissea. Kafka s’inventa però una versione tutta sua, essenziale.
Si sa: Ulisse si fece legare all’albero maestro per ascoltare il canto calamitante delle sirene, senza tuttavia farsi trascinare da loro e così dimenticare la patria, la sua famiglia, se stesso. Aveva turato le orecchie dei compagni con della cera, perché non sentissero nulla, neppure la sua voce implorante di scioglierlo e lasciarlo in balìa di quelle creature.
Kafka invece la racconta diversamente: anche Ulisse si riempie le orecchie di cera. Una beffa: le corde che lo stringono all’albero della nave devono alimentare il suo alibi. Così sfila davanti a quelle incantatrici, impassibile e vittorioso. Loro stanno cantando invano, lui crede, perché non sanno che non può sentire.
Ma le sirene tacciono.
Non si sa per quale motivo; forse un uomo come Ulisse si può sconfiggere solo con il silenzio, oppure si fermano rapite dal suo sguardo luminoso. Resta il fatto che “arma ancora più temibile del canto è il silenzio delle sirene”, perché è meglio perdersi avendo conosciuto la bellezza di quella melodia ammaliante, piuttosto che salvarsi senza averla mai ascoltata. L’eterno conflitto dell’uomo è accedere alla conoscenza in cambio di un avvitamento luciferino, un tonfo nell’inferno della consapevolezza.
Forse lui lo sa bene, forse Ulisse si accorge di questo inganno reciproco, di questo valzer degli equivoci che renderebbero inutili cera e catene. Ma è la prova che il Fato non può raggiungere il suo cuore, che lui ha il potere di sottrarsi a ogni iniziazione. Al rito che tutti gli altri uomini cercano nell’illusione di respingere la morte, di accedere ad altre dimensioni senza pagare pedaggio. Un’illusione che lui, cinico anche verso se stesso, non ammette.




Kafka, Racconti, Il nuovo avvocato


La reincarnazione di Bucefalo

Bucefalo era un cavallo nero e fiero, non si faceva montare da nessuno ma fu domato da Alessandro Magno, vinto dalla sua abilità di cavaliere e dall’aura di predestinato. In quel giorno fatale, che gli segnò la vita e la sua appartenenza, complice fu la luce di un sole abbagliante, che gli nascose ogni via di fuga, ma gli mostrò la strada del futuro; lontana, oltre le porte dell’India, tra i clamori delle battaglie, gli onori e le vittorie.
Il nuovo avvocato si chiama Bucefalo e conserva alcuni tratti equini, percettibili, ad esempio, nel modo di muovere le gambe quando sale le scale, come al ritmo metallico degli zoccoli al trotto.
Forse anche l’avvocato somiglia all’etimologia greca del suo nome: una testa bovina, larga e massiccia. Non lo sappiamo.
Il tempo è trascorso. Non esistono più paesi sconosciuti da conquistare. L’India è diventata vicina e quindi, in un certo senso, non esiste più; altre strade hanno perso la loro traccia. Non c’è alcun condottiero divino, ci sono tanti agitatori di spade inutili.
Così il cavallo si traveste da avvocato, rinasce nei panni di un uomo tranquillo, tutto preso dalle sue carte, solo, nel silenzio, alla luce di una lampada da tavolo.


Kafka: Le Metamorfosi



 Il meccanismo della metamorfosi: girotondo d'insetti

Gregorio, un mattino si risveglia insetto. Non sappiamo come ciò sia avvenuto e neppure lui sembra rendersene conto. Soprattutto non sembra meravigliarsi, accetta la nuova condizione, senza mai chiedersi se esista un modo per tornare com’era prima: un giovane assennato e responsabile, commesso viaggiatore. Piuttosto è attratto dal suo essere nuovo meccanismo: qui le zampette, qui il dorso duro e nero, qui le antenne, che gli permettono cose impensabili, come camminare sulle pareti.
Tutto molto diverso dalle “Metamorfosi” di Ovidio, le cui mutazioni sono descritte nel suo compiersi, come si trattasse di processi naturali, fisiologici. Le nuove forme subentrano sotto i nostri occhi; ci sembra di vederle compiersi in modo plastico, senza scatti. Questo aspetto di “fantasiosa scientificità” che animalizza gli umani e umanizza gli animali, che trasforma piante, cose, elementi in pochi tocchi, mette in comunicazione le diversità della natura e le filtra attraverso l’indistinto della materia primordiale, dove tutto scaturisce dallo stesso atomo.

Nel racconto di Kafka appaiono gli stessi vaghi confini tra le cose, ma aleggia anche un senso di cruda realtà non spiegata e non spiegabile, in contrapposizione al meraviglioso immaginifico del poeta latino.
Esiste un legame singolare, un girotondo stretto tra le metamorfosi di Kafka, quelle di Ovidio e quella di Enzino, protagonista de “La casa del barbiere” di Ferdinando Albertazzi. Anche in questo romanzo avviene una metamorfosi. Il ragazzino all’improvviso impazzisce, qualcosa si spezza dentro di lui.
Anche qui la causa è taciuta, o meglio, camuffata in un episodio apparentemente banale, non sufficiente, che parte da un gioco con le formiche nel giardino. Quella notte il grumo acquattato dentro di lui esplode e lo cambia, lo rende “diverso”, lo emargina dal mondo, esattamente come Gregorio, chiuso nella claustrofobia di una stanza denudata. Al di là della finestra un identico fondale, una casa senza suono, anch’essa bianca.
Le metamorfosi di Ovidio sono “oggettive” e trovano causa pragmatica nell’intervento di un dio che punisce una colpa reale. Nessuna spiegazione è data, invece, alla trasformazione di Gregorio in scarafaggio, mentre la suggeriscono le formiche di Enzino, che mostrano un altro tipo di metamorfosi, meno visibile, quindi credibile, ma proprio per questo radicale: sono proiezioni di sé stesso, sono le testimoni di un’esclusione.