sabato 23 giugno 2012

GIUDIZIO O PREGIUDIZIO. LUOGO COMUNE O VERITÀ: GLI ITALIANI ATTRAVERSO LO SGUARDO DI STENDHAL



Innamorarsi dell’Italia è facile. È un paese che per varietà e bellezza dei suoi paesaggi è unico al mondo. Su un’estensione relativamente modesta, l’Italia contiene tutto. E non basta conoscere una sola regione, una città per pensare di averla vista e capita: ogni luogo ha peculiarità, tradizioni, scenari, arti e caratteri completamente diversi gli uni dagli altri.
Lo capirono molto bene i viaggiatori del Grand Tour, il viaggio che a partire dalla seconda metà del ‘700 ogni giovane aristocratico doveva fare per completare la propria educazione.
Leggere i diari dei viaggiatori stranieri in Italia apre a squarci visionari di un mondo da sogno. Un luogo meraviglioso che i celebri versi di Goethe racchiudono nell’occhio giallo o arancio degli agrumi, nell’aria celeste e dolce di un paradiso in terra:

Conosci tu il paese dove fioriscono i limoni?
Nel verde fogliame splendono arance d’oro
Un vento lieve spira dal cielo azzurro
Tranquillo è il mirto, sereno l’alloro
Lo conosci tu bene?
Laggiù, laggiù
Vorrei con te, o mio amato, andare!
Eppure accanto alla perfezione dei luoghi c’è sovente il disappunto o la critica verso gli italiani, descritti un po’ come cialtroni – specialmente i vetturini e gli albergatori rapaci – come eccentrici o sanguigni, eleganti o vanesi, ma giudicati in modo sempre troppo frettoloso per essere credibili, come se fossero osservati attraverso un vetro appannato. Il risultato è lo stereotipo, è la vaghezza del luogo comune.
Sempre Goethe scrive in occasione del suo secondo viaggio in Italia, tra marzo e giugno del 1790:

L’Italia è ancora come la lasciai, ancora polvere sulle strade,
ancora truffe al forestiero, si presenti come vuole.

Onestà tedesca ovunque cercherai invano,
c’è vita e animazione qui, ma non ordine e disciplina;
ognuno pensa per sé, è vano, dell’altro diffida,
e i capi dello stato, pure loro, pensano solo per sé.
Bello è il paese! Ma Faustina, ahimè, più non ritrovo.
Non è più questa l’Italia che lasciai con dolore.

È chiaro come l’Italia fosse sostanzialmente sempre la stessa nei due anni che separano il primo dal secondo viaggio di Goethe, e che piuttosto fosse lui a essere cambiato; il giudizio sugli italiani era in realtà la proiezione di un suo disagio, il risultato di una cattiva disposizione d’animo, che il Paese comunque tanto amato non avrebbe potuto guarire.
Parole simili a quelle di Goethe si ripetono come cantilene nelle guide, nelle relazioni, nei diari, negli epistolari della maggioranza dei viaggiatori stranieri, e l’impressione è che essi fossero abbagliati dalla forza di una bellezza unica e antica, ma condannati a goderne da soli, bloccati da una diffidenza che non li faceva entrare in reale contatto con le persone. Uomini forzati al soliloquio, o al massimo disposti a dialogare con le statue.
La fascinazione esercitata da un freddo e perfetto corpo di marmo diventa un vero e proprio topos letterario. Come non ricordare la sinistra Vénus d’Ille di Prosper Mérimée, o la purezza della Venere de’ Medici della Galleria degli Uffizi descritta minutamente dal Marchese de Sade (Voyage d’Italie) o l’emblematico episodio raccontato da Maupassant in visita appositamente al Museo di Siracusa per contemplare la copia di un’opera di Prassitele, la Venere Landolina:
«…è una donna ed è anche il simbolo della carne… Essa non ha la testa. Che importa! Il simbolo è diventato completo… Questa forma di marmo è l’inganno ideato dall’artista, la donna che nasconde e mostra il mistero della vita» (La vie errante).
Questo motivo letterario riscuote grande fortuna e perdura nel ‘900 nella ragazza raffigurata su un rilievo antico che incede mollemente e nel passo sembra prender vita, ossessionando il professore tedesco della Gradiva di Wilhelm Jensen (analizzato anche da Freud), o nella variazione della statua come viva creatura mitologica, la Lighea di Tomasi di Lampedusa, racconto degli ultimi anni della sua vita.
L’innamoramento per l’antico e la scoperta dell’archeologia discendono da un teorico formidabile: Johann Joachim Winckelmann, che per primo teorizzò il canone della bellezza neoclassica, una bellezza formale e perfetta. Corpi sovraumani la cui candida politura del marmo privava di qualsiasi imperfezione. Ed è qui il motivo del viaggio: la ricerca di una bellezza astratta e arcana, avulsa dal presente, come le rovine che affiorano dalla terra. Colossi di pietra che lasciano stupefatti e come in un gioco di Medusa pietrificano chi li contempla.
Ancora all’antichità risale la tendenza a giudicare in modo generico e definitivo il carattere dei popoli. I greci attribuivano la propria superiorità alla felicità del proprio clima e alla posizione geografica della penisola ellenica, come leggiamo nel trattato ippocratico Sulle arie, le acque, i luoghi. Non solo: le istituzioni influenzerebbero il carattere di un popolo, ed Erodoto spiega così la vittoria dei Greci sui Persiani. Tale principio si ripropone spesso nelle tragedie, ad esempio in Euripide che, nell’Ifigenia in Aulide,  fa dire alla fanciulla: «è naturale che i Greci comandino sui Barbari e non i Barbari sui Greci, essi infatti sono schiavi, noi invece liberi» (vv. 1400-1401). Maggiore autorevolezza assume Aristotele: «I popoli d’Asia hanno natura intelligente e capacità nelle arti, ma sono privi di coraggio per cui vivono continuamente soggetti e in servitù: la stirpe e gli Elleni, a sua volta, come geograficamente occupa la posizione centrale, così partecipa del carattere di entrambi perché, in realtà, ha coraggio e intelligenza, quindi vive continuamente libera, ha le migliori istituzioni politiche e la possibilità di dominare tutti, qualora raggiunga l’unità costituzionale» (Politica, 1327b 26-34). Si arriva in questo modo a giustificare il primato di una razza eletta, quella dei Greci, sul resto del mondo e si comprende bene come nei secoli successivi la teoria aristotelica venisse applicata su scala universale per tutti i «diversi»: i barbari, i nemici o semplicemente chi professasse religioni o idee diverse.
Lo stesso pensiero è ripreso da Montesquieu, che però sposta il baricentro geografico: «Nei climi nordici troverete popoli che hanno pochi vizi e molte virtù, grande franchezza e sincerità. Avvicinatevi al mezzogiorno, e avrete l’impressione di allontanarvi dalla morale stessa: passioni più vive moltiplicheranno i delitti; ciascuno cercherà di prevalere sugli altri per dare più libero sfogo a queste stesse passioni. Nei paesi temperati troverete invece popoli incostanti nel loro comportamento, sia nei loro vizi, sia nelle loro virtù; il clima non è sufficientemente caratterizzato per determinare con maggior precisione i loro caratteri. Il calore in certi climi può essere così eccessivo da privare totalmente il corpo della sua forza. La fiacchezza si comunicherà allora allo spirito stesso; non si avrà più alcuna curiosità, alcun desiderio di nobili imprese, alcun sentimento generoso; le inclinazioni saranno tutte passive; la felicità sarà identificata con la pigrizia».
È presto detto: il razzismo è una convenzione. È l’appropriazione del primato di chi in quel dato momento storico detiene il potere. La frase trita che la storia la scrivono i vincitori è quanto mai vera. L’Italia fu a lungo preda e terra di conquista e la prima cosa a essere violata fu la dignità del suo popolo. Non a caso il processo che guidò all’unificazione del Paese, alla metà del XIX secolo, costò dolore e sangue ma fu anche uno dei momenti in cui più forte nella storia fu il senso di appartenenza al sentimento nazionale.
Emblematica la posizione di Charles Dickens: «Lasciamo l’Italia con tutte le sue miserie e i suoi torti, con rimpianto, nella nostra ammirazione delle bellezze naturali e artistiche, delle quali trabocca, e nella nostra tenerezza verso un popolo, d’indole naturalmente buono, paziente e dolce. Lunghi anni di trascuratezza, d’oppressioni, di malgoverno hanno lavorato per cambiarne la natura e deprimerne lo spirito; miserabili gelosie, fomentate da Principi meschini ai quali l’unione significava distruzione e la divisione forza, sono stati il cancro della radice della sua nazionalità e gli hanno imbarbarito la lingua; ma il bene che fu sempre in lui, è ancora in lui: e un nobile popolo si può un giorno sollevare da queste ceneri. Intratteniamo questa speranza!» (Pictures from Italy, 1846).
Egli difese l’Italia e gli italiani anche in privato, in una lettera a Herly Forthergill Chorley, che aveva criticato gli italiani nel suo romanzo Roccabella: «Io non sono della vostra opinione per quanto riguarda gl’italiani. Pensate, se voi e io fossimo italiani, e fossimo cresciuti dall’infanzia ad ora minacciati continuamente da confessionali, prigioni e sgherri infernali, potremmo voi ed io essere migliori di loro? Saremmo noi così buoni? Io, se ben mi conosco, no».
Ma Dickens è l’espressione di una mentalità nuova, attenta ai fatti d’Italia. Conobbe Mazzini, Gallenga, Manin. Diede aiuto e protezione a Poerio e ai rifugiati napoletani a Londra, mettendo a loro disposizione il suo giornale, l’Household Words, per la propaganda delle loro idee. In poco più di mezzo secolo molte cose erano cambiate e le parole di Goethe o di Montesquieu diventano ancora più intollerabili.
Tra questi due poli emerge un uomo singolare: Stendhal. Come ebbe a dire Paul Valéry: «Stendhal è se stesso in modo troppo particolare perché sia riducibile a uno scrittore». A chi gli chiedeva quale fosse la sua professione egli, infatti, rispondeva: «osservatore del cuore umano» (M. Crouzet, Stendhal. Il signor Me stesso).
La sua esperienza italiana è diversa da quella dei suoi contemporanei. La sua permanenza nella penisola fu molto più che un viaggio di piacere o di formazione. Il suo rapporto con l’Italia sembra la confluenza e il superamento delle idee che lo avevano preceduto.
In lui troviamo idee in conflitto molto interessanti che vale la pena di approfondire. In modo sommario possiamo dire che egli rappresenti lo spartiacque tra la fine (o il fallimento?) dell’Età dei lumi e l’inizio del Romanticismo.
Henry Beyle arrivò in Italia nel giugno del 1800 come sottotenente di cavalleria, al seguito dell’armata napoleonica. Attraversò il San Bernardo e un nuovo mondo gli si aprì dinanzi: l’Italia, «il cui cielo è la felicità dell’uomo». Tutto sembrava promettere vittorie e conquiste ma quello stesso giorno dovette fare i conti con qualcosa di molto più potente: la musica.
Si trovò ad assistere per la prima volta al Matrimonio Segreto di Cimarosa in un teatro di Ivrea o di Novara, non si sa con precisione. L’attrice che interpretava Carolina era sdentata, di sicuro nel teatro non vi era lo stesso sfavillio che avrebbe vissuto qualche giorno più tardi alla Scala di Milano, ma il suono della lingua italiana entrò subito dritto nel suo cuore e gli era misteriosamente comprensibile, svelando «l’autentica anima del Paese»: «Vivere in Italia e ascoltare musica come quella divenne la base di tutti i miei ragionamenti» (Vie de Henry Brulard, cap. XLVI).
A Milano, amò molte donne e non sempre fu corrisposto.
 «4 marzo 1818: “Principio di una grande frase musicale”» è la metafora che inizia il racconto del suo più grande e disperato amore, Métilde Viscontini Dembowski, donna sposata che mai si diede a lui.
Il cielo, la musica e l’amore. Tre ingredienti che lo legarono per sempre a una terra che divenne la sua, a costo di fuggire di continuo e viaggiare sotto falso nome, lui legato a Napoleone ormai caduto, continuamente braccato dalla polizia. Riuscì anche a ricoprire delle cariche di ambasciatore, che gli permisero non solo di vedere, ma di «vivere» l’Italia.
Dicevamo la musica come cifra per capire davvero senza ambiguità il nostro Stendhal. È infatti la cartina al tornasole che lo scrittore utilizza per capire il suo prossimo. Il modo in cui la musica veniva ascoltata era la rivelazione profonda dell’essere. «La musica è la pittura delle passioni», scrive nella prefazione del Rome, Naples et Florence, in poche parole un manifesto del Romanticismo: dalla linea grafica e razionale dell’arte neoclassica si passa all’infinito della sfumatura, all’emozione del colore.
A Milano la musica era gioia ed esaltazione e della Scala come luogo di magie si è già accennato. Lo stesso a Bologna, terra di passioni e di piaceri è, neppure a dirlo, terra di musica. A Napoli il Teatro San Carlo lo esalta: «Gli occhi sono abbagliati, l’anima rapita. [...] Non c’è nulla, in tutta Europa, che non dico si avvicini a questo teatro, ma ne dia la più pallida idea» e ancora: «Questa sala, ricostruita in trecento giorni, è un colpo di stato. Lega il popolo al Re più della migliore delle leggi». In questa atmosfera dorata apprezza il modo partecipe e vivace di ascoltare la musica. Tutto il contrario dei fiorentini, fermi e compunti. Una sera va al teatro del Hhohhomero, è così che si pronuncia Cocomero (l’attuale teatro Niccolini di Via Ricasoli): «Sono furibondo contro questa lingua fiorentina, così celebrata. In un primo momento mi è parso di sentire dell’arabo, e non si può parlare svelti». Anche a Firenze impazza Il Barbiere di Siviglia. Allestimento e rappresentazione sono modesti e mediocri, ma gli danno modo di scoprire il carattere dei fiorentini. «L’istinto musicale mi fece vedere, sin dal giorno del mio arrivo, qualcosa di inesaltabile in tutti quei volti; e la sera non restai affatto scandalizzato del loro modo saggio e corretto di ascoltare il Barbiere di Siviglia… Arrivando da Bologna, terra di passioni, come non restare colpiti da qualcosa di ristretto e di arido in tutte quelle teste? L’amore-passione s’incontra di rado tra i fiorentini» (Rome, Naples et Florence).
Sappiamo che imparò ad amare lentamente Roma, all’inizio bersaglio di critiche feroci.


Col tempo, la città finisce per sedurlo. Nelle Promenades dans Rome, altra geniale guida turistica scritta tra il 1827 e il 1829, l’atteggiamento di Stendhal è mutato: si immerge nell’atmosfera dei suoi vicoli, nelle sale dei musei, dei palazzi, nell’ombra delle Chiese. E non è solo la bellezza artistica ad attirarlo: scopre il carattere appassionato dei romani, del popolo che ha «la forza di Giovenale unita alla follia dell’Aretino». Non l’aristocrazia romana, che gli appare debole, immersa in una sterile voluttà, non l’ipocrisia degli intellettuali, ma le persone che vivono per strada, folli di vita e teneri in amore, giocosi, impulsivi, ai quali basta un niente – così nella sua mitizzazione – a scatenare risse e uccidere. Una natura sanguigna e vitale, dovuta alla mancanza di «educazione», all’isolamento secolare trascorso sotto il «ricatto» papale. Passione e impeto, che al lampo del coltello affiancano la felicità bambina nell’ascoltare le musiche del Barbiere di Siviglia, rappresentato al Teatro Argentina. Allora vi fu una festa che durò tutta la notte, con banchetti, balli, canti: Rossini fu portato in trionfo sulle spalle attraverso le vie. La Roma pagana, dionisiaca, feroce era tutta lì. E tanto bastò a Stendhal.
Insomma, la novità essenziale è che egli si immerse nell’umanità italiana, coltivò amicizie, frequentò assiduamente i salotti che inondava della sua logorrea, amò donne italiane.
Quando si vuole trattare del rapporto di Stendhal con l’Italia, si tende a citare singole frasi come aforismi la cui lapidarietà finisce per congelare il suo pensiero. In realtà non ha molto senso se non quello di offrire divertimento e meraviglia, alle volte irritazione. Stendhal era un grafomane «che scriveva perfino sulla carta», come ebbe a dire il suo biografo Crouzet. Per avere un quadro più equilibrato e vero occorre leggere molto e fare attenzione ai tempi. E Stendhal scrisse moltissimo e ovunque si trovano pensieri fulminanti, osservazioni argute, riflessioni a volte profonde, altre volte perfino superficiali e contraddittorie. Offre catalogazioni da entomologo, stereotipate come quelle di Montesquieu o guide geniali come era stato il ben più antico Journal du voyage en Italie par la Suisse et l’Allemagne di Michel de Montaigne.
La Piccola guida per il viaggio in Italia (1828), concepita come libretto tascabile, è un vero prontuario dedicato al suo amico Romain Colomb, in partenza nella penisola. Con un linguaggio ridotto all’essenziale, in forma di lista, i verbi all’infinito quasi come il dettato di un robot - numeri, cifre, costi appuntati con precisione maniacale - sembra voler proteggere dai pericoli e dalle truffe e tradisce un atteggiamento francamente prevenuto, ma che non si riesce di smettere di leggere, divertentissimo. È la guida che tutti vorremmo avere quando si giunge in un paese sconosciuto, ma certo assolutamente insufficiente per comprendere il Paese.
Profonda e vivida è Rome, Naples et Florence, molto più di una guida turistica, non un semplice e dotto diario da Grand Tour, ma un’esplorazione  intima in cui, come sempre, la descrizione dei luoghi respira insieme ai diversi caratteri degli uomini che vi abitano, per cui un lombardo è già molto diverso da un toscano o da un emiliano, sembrando alimentare quei luoghi comuni che dividono da sempre gli italiani. È vero che molte critiche sono in realtà le reazioni di chi si sente rifiutato, come nel caso di Trieste, ritenuta troppo «tedesca» e poco italiana, dove rimase quattro mesi nella vana attesa dell’exequatur, che gli avrebbe riconosciuto la carica a console.
Quest’opera è il resoconto dell’Italia dopo la caduta dell’impero e l’avvento della Restaurazione. Scrive in apertura: «Chi legge, seguirà lo sviluppo naturale dei sentimenti dell’autore. Comincia coll’occuparsi di musica: la musica è la pittura delle passioni. Vede i costumi degli italiani: di qui, passa ai governi che danno vita ai costumi e, infine, all’influenza di un uomo [Napoleone] sull’Italia. Infelice destino del nostro secolo: l’autore non voleva che divertirsi, e il suo quadro finisce offuscato dalle tinte cupe della politica». E qui c’è forse la chiave di tutto: il rifiuto a partecipare alla vita politica e l’inevitabilità di non poterle sfuggire.
Aleggia sempre la figura di Napoleone, al quale fu legato più da una fascinazione, un vero innamoramento dell’uomo carismatico, piuttosto che dalla condivisione delle idee politiche.
A Milano si innamorò di Métilde e a causa sua dovette lasciarla per tornare a Parigi, sia per la delusione di non essere corrisposto, sia perché, sospettato dalla polizia austriaca di un suo coinvolgimento nei moti del 1821, fu espulso. La donna, che contava tra gli amici più cari Ugo Foscolo, ospitava infatti nel salotto di piazza di Belgioioso liberali e patrioti ed ebbe parte attiva nella carboneria.
Stendhal era convinto che l’acquisizione di una coscienza politica per i milanesi fosse «entrare nell’attesa del futuro, nella parzialità, nella divisione istituzionale degli spiriti e degli animi; stavano per diventare meno “milanesi”, più simili a tutti gli europei» (Crouzet).
L’Italia era percepita come un’indistinta forma mitica, dove godere di piaceri avulsi dalla verità quotidiana e pertinenti piuttosto a soddisfare un Io-singolare, dove non esiste l’attenzione al sociale, ma si pensa a se stessi, dove al fare si contrappone «il privilegio quasi divino dell’essere» (e da qui la contrapposizione nord-sud). Un edonismo che rovescia quello che è giusto da quello che non lo è e rende razzista essere a favore, tanto quanto è razzista essere contro, osserva ancora Crouzet. Leonardo Sciascia avanza più di una perplessità, chiedendosi quale sarebbe stato l’atteggiamento di Stendhal rispetto alla mafia, perché «ciò che angustia e angoscia ogni siciliano di retto sentimento e ragione, per Stendhal sarebbe stato motivo di attrazione, di amore e di esaltazione» (L’adorabile Stendhal).
Nell’elenco dei piaceri per «le teste leggere che vanno in Italia» si vede tutta la vaghezza di Stendhal:
1. respirare un’aria dolce e pura;
2. vedere magnifici paesaggi;
3. To Have a bit of a lover;
4. vedere bei quadri;
5. ascoltare buona musica;
6. visitare belle chiese;
7. vedere belle statue.
(Lettera alla sorella Pauline, 10 ottobre 1824).

La sua visione dell’Italia è stata molto bene compresa da André Suarés: «Stendhal ha creato un’Italia mille volte più italiana di quella che abbiamo sotto gli occhi. Ci ha dato l’Italia che amiamo; da allora, dalle Alpi alla Sicilia, è l’Italia di Stendhal che andiamo cercando». Non quella reale. È una felicità che sfugge alla ragione: «Come fare un racconto un po’ ragionevole di tante follie? Da dove cominciare? Come rendere un po’ comprensibile tutto questo? Ecco che già dimentico l’ortografia, come mi capita nei grandi slanci di passione, e si tratta tuttavia di cose avvenute trentasei anni fa… Che partito prendere? Come dipingere la felicità folle?» (Souvenirs d’égotisme).
Arriva a Firenze per la prima volta il 22 gennaio 1817 e la vede avvicinarsi con il profilo della cupola rossa del Duomo, scendendo da Via Bolognese. Racconta: «I ricordi si affollavano nel mio cuore, non mi sentivo in condizione di ragionare e mi abbandonavo alla mia follia come al fianco della donna che si ama». Lungo le strade non si perde: è come se le avesse già conosciute. Si lancia alla scoperta della città, visita Santa Croce, ne esce con tachicardia e vertigini. Si siede su una panchina della piazza e tira fuori dal portafoglio i Sepolcri: «non vedevo i loro difetti: avevo bisogno della voce di un amico che condividesse la mia emozione». La proverbiale sindrome di Stendhal, appunto, è un malessere, una vertigine al limite della nausea, un carico di emozioni insostenibili.
Questa percezione fantastica di un Paese illusorio non gli impedì di millantare di essere stato in Sicilia, arrivando a descrivere cose che non aveva mai visto. Desiderò molto andarci: vedeva nell’isola un ricco tesoro di storie passionali e morbose da cui attingere, simili a quelle che aveva raccolto nelle sue Cronache Italiane, che non a caso sono datate Palermo 1838, periodo in cui  periodo in cui Beyle fu di sicuro a Parigi (Sciascia).
La Sicilia era nel suo immaginario il luogo molto vicino a quello che sognava dell’Italia: la musica, il cielo, il luogo dell’amore-passione.
Milano rimane comunque la più amata: «…questa città mi piace. Vi ho trovato le più grandi gioie e le maggiori pene, vi ho soprattutto trovato ciò che costituisce la patria, i primi piaceri. Qui desidero passare la mia vecchiaia e morire» (Souvenirs d’égotisme).
È questo: riconoscere, anzi scegliere la propria patria. E la sua patria è l’Italia, anzi Milano.
Sempre nei Souvenirs arriva, fin dal 1821, a progettare l’epitaffio della sua tomba, con il suo vero nome, non i mille pseudonimi di sempre, e in lingua italiana. Una lapide che effettivamente ancora oggi possiamo leggere
nel cimitero parigino di Montmartre, dove Stendhal riposa:
arrigo BEYLE
milanese
scrisse
amò
visse
ann. lix m. ii.
morì il xxiii marzo
mdcccxlii







Pubblicato in AA.VV., Letteratura e sentimento nazionale nel nome di Francesco De Sanctis, Atti del Convegno AICL, Morra de Sanctis  14-15 ottobre 2011, Nemapress, Roma 2012, pp. 251-260.