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Mineia M. f.
La
nobile signora di Paestum
Maria
Milvia Morciano
Paestum è una città dalla lunga vita. Le
origini dell’insediamento risalgono alle epoche preistoriche, ma la fondazione
della città greca, Poseidonia, avviene verso il 625 a.C., per opera di coloni
Sibariti. Il suo nome muta come Paistom
quando venne sotto l’influenza lucana e diventò Paestum quando fu colonia
romana, nel 273 a.C.
Molti dei suoi resti, a testimonianza delle
diverse fasi storiche che interessarono la città, rimangono miracolosamente
intatti. Come non citare le tombe dipinte, misteriose e profonde di significato
come quella del Tuffatore, dove un giovane si getta dal trampolino giù nelle
acque, forse più metaforiche che reali, di un al di là sconosciuto. Oppure si
tratta proprio del mare, elemento fondamentale di Paestum che prende il suo nome
greco dal dio Poseidone, il signore degli abissi marini. E i suoi grandi templi
sono ancora in piedi, uno sul limite settentrionale della città, dedicato ad
Athena (Athenaion, fine VI sec. a. C.) e gli altri due a meridione, il primo dedicato
a Posiedon-Nettuno (metà del V sec. a.c.) e l’altro ad Hera (la cosiddetta Basilica), il più antico della
città.
Sempre consacrato a Hera, fin dall’epoca
arcaica, sorgeva un santuario distante una decina di km, alla foce del Sele, decorato
da metope scolpite con favolose fanciulle danzanti, che nell’incedere sembrano ancora
far sentire il fruscio delle loro vesti.
Più tardi la città fu cinta da una
poderosa fortificazione, ancora oggi conservata in gran parte per tutto il suo
tracciato, con le sue torri e le sue porte.
Il centro urbano si riorganizzò più
volte fino a realizzarsi tra la fine della repubblica e la prima età imperiale,
tra Cesare e Augusto.
La piazza principale della città, il Foro,
si dotò di tutti quegli edifici necessari allo svolgimento delle attività
politiche e sociali. Lungo il suo spazio rettangolare si disposero la Basilica,
il comitium, il macellum e le tabernae.[1]
Inoltre si riconoscono alcuni templi, il più importante dei quali sul lato nord
della piazza, il cosiddetto Tempio della Pace, nel quale andrebbe piuttosto
ravvisato un luogo di culto dedicato a Bona Mens, come vedremo più avanti.
In questo periodo Paestum come molte
colonie è interessata da numerosi lavori edilizi intesi a riorganizzarla e
abbellirla rendendola, come scrive Gellio, quasi
effigies parvae simulacraque,[2] la
copia in scala della capitale. Si vuole cioè simulare
e replicare la grandezza di Roma, che rappresenta il modello urbano ma che è
anche la capitale del mondo di allora, il centro del potere, al quale aderire
per testimoniare sicura fedeltà. E
fedeltà Paestum l’aveva sempre dimostrata, ad esempio durante la seconda guerra
Punica, quando lo storico Livio la nomina tra le diciotto colonie che non
tradirono Roma.[3]
A preoccuparsi di dare questo volto alla
città, seguendo veri e propri programmi propagandistici, sono le famiglie più
abbienti, che attraverso elargizioni guadagnano potere e influenza. Con atti di
donazione finanziano la costruzione o la ricostruzione di molti edifici pubblici, religiosi e di spettacolo.
In questo periodo a Paestum emerge il
nome di una donna di grande potere e prestigio, appartenente a una famiglia di
rango senatorio, che diventa la protagonista di alcuni importanti interventi
urbani della città: Mineia M. f.
Non si può dire molto della sua vita e tanto
meno della sua personalità. Tutto ciò che rimane sono alcune fredde e icastiche
epigrafi che riassumono in poche parole legami, circostanze, opere, occasioni.
Non esistono suoi ritratti, il suo volto è sconosciuto e nulla si può dire del
suo temperamento. Sappiamo solo che oltre al prestigio a lei fu dato il dono di
una vita longeva. Eppure il segno lasciato
da questa donna fu così importante da meritarsi l’onore eccezionale di essere
ricordata su alcune emissioni monetali.
Tuttavia, le testimonianze archeologiche
se ben interrogate non tacciono.
La sua famiglia è ricordata da una serie
di iscrizioni, poste sotto altrettante statue, che Mineia stessa dedicò nella
Basilica della città, uno degli edifici peculiari del Foro dove avvenivano le
riunioni pubbliche e si amministrava la giustizia.
La prima iscrizione è dedicata al marito
C. Cocceio Flacco, senatore pestano, che fu annoverato da Cesare tra i quaranta
questori nel 44 a.C. In seguito, ancora sotto Cesare o Augusto, fu autore della
deduzione coloniale di Apamea, porto di Prusa in Bitinia, come colonia Iulia Concordia Apamea.
L’iscrizione a tal proposito ricorda che fu anche autore dell’assegnazione dei
terreni pertinenti alla colonia:[4]
[C. (?) Cocceio – f. ] c.N.
[Fla]c[co, quaesto]ri lecto
ab div[o Caesar]re, legato
M’. Octa[cili Crassi] in Bithynia
pro [pr(aetore);
agros de Ap]amaea divisit,
Min[eia (M.f.)]uxor
Divenne infine senatore tra il 47 e il
46 a. C. Questa carriera così brillante subì un arresto improvviso segnato dal
silenzio delle fonti, testimoniando così la sua morte e quindi la vedovanza di
Mineia.
Altre iscrizioni, fra loro simili, sono
rivolte dalla dama ai suoi due fratelli, insigniti dello stesso rango del
marito:[5]
M(arco)
Mineio M(arci) f(ilio)
|
L(ucio)
Mineio
|
L.
Mineio
|
Marci
nepoti Flacco tr[ib(uno)]
|
M(arci)
(filio) M(arci) n(epoti)
|
M. f. M.n.
|
Mil(itum) Mineia [sor]or
|
Mineia sor(or)
|
Mineia soror
|
Ancora una quarta ricorda Mineia o una
sua omonima parente, forse la sorella.
Una quinta menziona un notabile locale, probabilmente il nipote di
Mineia, essendo lei l’avia, cioè la
nonna:[6]
[M]ineia
|
[C.
(?) Co]cce[io]
|
[M.f.
uxor]
|
[C.
(?) f. C.(?) n.] Aequo
|
|
[Min]eia
avia
|
A chiudere il cerchio, troviamo una
lunga iscrizione abbastanza lacunosa ma ricostruibile senza particolari
difficoltà. Essa, disposta su due righe per una lunghezza originaria di dieci
piedi (pari a m 3), riporta le seguenti parole: “Mineia M. f., moglie di
Cocceio Flacco, madre di Cocceio Iusto, costruì con propri denari, fin dalle
fondamenta, la Basilica e davanti a essa il portico con tutto il pavimento”. [7]
[Mineia M.f. C. C.
Coc]ce[i F]lacci, [m]ate[r C. (?) Coccei Ius[ti, ab fundamentis
[basilicam e]t ante ba[silicam sua p]ecu[nia fecit
porticus cum pavim]entaque omnia
La Basilica pestana è stata identificata
nella cosiddetta Curia, situata al centro del lato lungo meridionale del Foro
ed è datata al primo periodo augusteo sia dagli scavi stratigrafici sia da
questa lunga iscrizione.
Grazie all’integrazione di questa con
quella menzionante Aequus è possibile ricostruire una logica sesta epigrafe che
non è stata mai rinvenuta:[8]
[-]
Cocceio
|
C.
(?) f. C.(?) n.] Iusto
|
[Min]eia
mater
|
I cognomina
ricordano le virtù di giustizia ed equità, lasciando pensare che si tratti di
personaggi strettamente legati da un legame di parentela: si tratta del padre
Iustus e del figlio Aequus.
Mineia perse prematuramente sia il
marito, sia il figlio, e il figlio poté percorrere per un solo tratto la
carriera paterna, pur anch’essa interrotta proprio nel momento di massima
ascesa.
L’imitazione con Roma è evidentissima:
la famiglia di Mineia riflette in modo perfetto la gens Iulia. La Basilica di Roma fu, infatti, chiamata da Augusto basilica Gai e Luci, in onore dei due
figli adottivi morti prematuramente.
Mario Torelli, che ha studiato questo
gruppo di iscrizioni pestane, arriva ad assegnare il posto occupato da ciascuna
statua, individuata dalle iscrizioni dedicatorie. Infatti, solo una statua
delle sei è giunta fino a noi, raffigurante una figura virile, togata e stante.
Le statue ritratto si disponevano sui
lati corti della Basilica, entro delle nicchie.
Su un lato, nella nicchia centrale, doveva esserci la statua del marito
C. Cocceio Flacco, mentre quelle del figlio Iustus e del nipote Aequus dovevano
stargli ai lati. Sulla parete opposta, proprio di fronte al marito, doveva
esserci la statua di Mineia posta tra quelle dei due suoi fratelli, Marco
Mineio e Lucio Mineio. [9]
A dare un quadro più ampio e dettagliato
dell’attività della donna, concorre un’ulteriore dedica rivolta dai magistri Mentis Bonae, un collegio di
liberti addetti al culto della dea Bona Mens, a Mineia stessa:[10]
Min[eiae]
M.f.
magistri Men[tis]
Bonae
Si tratta di una divinità
importantissima a Paestum e in stretto rapporto con la compagine sociale ed
economica del tempo. Infatti, essa presiede alla liberazione dei servi e
garantisce che essi mantengano una buona disponibilità d’animo verso gli
antichi padroni. Passaggi fondamentali questi, perché con la liberazione degli
schiavi, che diventano liberti, alla ricchezza della classe nobiliare si
affianca sempre più nel tempo quella di una classe sociale fatta di “nuovi
ricchi”, creando nuove dinamiche di potere, equilibri sociali diversificati e
complessi.[11]
Il legame tra Mineia e Bona Mens è
testimoniato dalla dedica che il collegio di liberti rivolge alla donna, ma
potrebbe anche essere riaffermato da un legame urbanistico. Il tempio
repubblicano cosiddetto della Pace, ritenuto anche Capitolium, cioè dedicato
alla triade Giove, Giunone e Minerva, è in realtà più probabilmente il tempio
consacrato alla dea.
Esso si trova proprio di fronte alla
Basilica, all’edificio cioè che riceve l’impronta di Mineia. È quindi probabile
che la dedica dei magistri Mentis Bonae
si riferisca a un suo patronato sul collegium.
E decisivo per avvalorare questi legami è l’emissione monetale con il nome di
Mineia M. f., un onore eccezionale, che pone la donna in una posizione di
assoluto prestigio.
La moneta è un semiasse di bronzo. Il
lato recto riporta una testa di
divinità femminile e la legenda Mineia M.
f.; sul lato verso, vi è
raffigurato un edificio colonnato su due piani con il tetto a capanna. La legenda
riporta: P(aestum) S(emis) sulla
sinistra dell’edificio e continua a destra con S(enatus) C(consulto).[12] È
stato proposto che P S, in analogia
all’iscrizione della basilica, sia letta come P(ecunia) S(ua), anche perché non vi sarebbero per la città altre
indicazioni del valore nelle monete bronzee nello stesso periodo. In ogni caso
le monete di Mineia provano come in questo periodo il metallo destinato alla
coniazione di monete fosse di origine privata.[13]
Quindi Mineia avrebbe fornito anche il bronzo per battere le monete che portano
il suo nome.
La dea è a tutta evidenza Bona Mens,
mentre l’edificio, nella schematicità dei portici su due piani, riporta al modo
convenzionale con cui si rappresentata la Basilica. Certo è difficile non
cedere alla tentazione di pensare che Mineia volesse identificarsi con la dea
stessa, così come Livia fu associata a Pietas su un dupondio bronzeo (moneta da
due libbre).
Mineia non è certamente un esempio
isolato. Le fonti storiche e archeologiche ricordano diverse donne di prestigio
che intesero imitare Roma concorrendo alla costruzione o alla ricostruzione di
edifici pubblici, come ad esempio Eumachia a Pompei. Lo stesso, le “gallerie” di
ritratti di intere famiglie sono una caratteristica non rara in epoca augustea
in molte città romane, come a Ercolano.[14]
Tuttavia un esempio similare si trova
proprio a Paestum e interessa un intervento edilizio in un’area extraurbana
della città per opera di due sacerdotesse, madre e figlia, Sabina, moglie di un
Flacco e Valeria C. f., moglie di un Sabino. Si tratta del santuario di Santa
Venera, dedicato a Venere - Afrodite ed esistente fin dagli inizi del VI sec.
a.C.
La divinità adorata ha dapprima connotazioni
greche, ma con il tempo prende caratteristiche più specificatamente romane, quelle
della Venus Genetrix ovvero della capostipite
della gens Iulia, la famiglia di Cesare, che viene divinizzata, rendendo anche
questo culto finalizzato all’esaltazione del potere personale. Le due
sacerdotesse danno impulso al culto tra la fine della repubblica e l’inizio
dell’impero, nello stesso scorcio di tempo in cui operò Mineia. [15]
Un’ipotesi avanzata da Mario Torelli
sarebbe che Sabina fu anch’essa moglie di Caio Cocceio Flacco e Valeria la
figlia. Mineia quindi sarebbe la seconda moglie.[16]
Si tratta di una possibilità che lascia
spazio a ulteriori e affascinanti speculazioni. Le opere evergetiche delle
donne, di Mineia e di Valeria con Sabina, divergono sia come significato sia
come peso in termini di prestigio sociale.
Mineia destina il suo denaro a opere intra-muranee,
perseguendo finalità di ordine spiccatamente politico e sociale, esibite ed
evidenti. Sabina si dedica invece ai rifacimenti di un luogo sacro extra-muraneo,
con connotazioni di natura certamente politica e non solo religiosa, ma comunque
in un modo più appartato, meno esibito.
Di
là dalle spiegazioni di tipo storico, ove sono in gioco volontà di potere e
dimostrazione della propria munificenza, cosa possiamo dire di più. Possiamo
tentare una lettura psicologica delle azioni svolte dalla seconda moglie del
senatore, Mineia, rispetto alla prima, Sabina? Non potremmo vederci una sottile
soddisfazione, una sorta di competizione per cui, al ripescaggio dell’antico culto
venusiano quale simbolo di progenie di tutto il popolo romano e posto in area
extraurbana operato dalla sacerdotessa, si contrappone un atto non solo di imitazione
ma di una propria identificazione, dove il modello ricalcato è addirittura
Livia - moglie di Augusto, madre di Tiberio e di Druso maggiore, nonna di Germanico
e Claudio, bisnonna di Caligola e trisavola di Nerone - attraverso la
riproposizione del ritmo binario dei medesimi edifici del Foro: porticus Liviae - aedes Concordiae a Roma / basilica
Mineiae – aedis Mentis Bonae a
Paestum?[17]
Se il marito fosse con certezza lo
stesso Flacco direi proprio di sì.
Mineia ricostruisce e decora la Basilica
con le statue della sua famiglia, che diventa quasi un edificio di “culto civile”,
un “larario pubblico”, fatto per celebrare il potere di una gens. Il pensiero corre subito a Roma, come più
volte è stato ribadito, all’esempio di Livia e quindi a tutte quelle divine
personificazioni delle “virtù imperiali” che diventano nel tempo centrali e sempre
più numerose: Concordia, Pax, Salus, Pietas, Victoria ecc.
Mineia sopravvive al marito, al
fratello, al figlio Iustus, e forse anche al nipote Aequus. Rimane sola a
testimoniare la memoria del marito e della famiglia. Intorno al 20-10 a. C. costruisce
un monumento quale simbolo del potere acquisito, ma anche segno del rammarico
per quello che i suoi uomini avrebbero potuto ottenere e che la morte ha
interrotto.
Si tratta di una vedova che sceglie di restare
in perenne lutto, pietrificata dal dolore come la sua stessa statua, che colloca
tra i ritratti dei suoi morti. Mineia, solitaria e saturnina donna depositaria
dell’honos e della virtù familiare,
riflette anche nella sua vita la condotta perfetta che si richiede alla moglie ideale
di età augustea. Non il protagonismo punito di una donna fatale come ad esempio
era stata Cleopatra, ma il pudore di chi sembra contentarsi di vivere
apparentemente di luce riflessa come Livia, madre silenziosa e virtuosa,
destinata dopo la sua morte a essere divinizzata dal figlio Claudio.
Chissà se dalla sua casa Mineia sentiva
il profumo delle celebri rose pestane, il magnifico fiore che qui fiorisce
rosso e odoroso due volte l’anno, cantato da Virgilio, Orazio e Properzio.
Roma, 3 ottobre 2011
Abbreviazioni
AE:
Année
épigraphique
ILP:
M. Mello – G.
Voza, Le iscrizioni latine di Paestum, Napoli 1968.
Greco –
Theodorescu
1980 :
E.
Greco – D. Theodorescu, Poseidonia-Paestum
1: La curia, vol. 1, Roma 1980, Collection de l’École française de Rome 42.
Mello 1968:
M. Mello, Mens Bona.
Ricerche sull’origine e sullo sviluppo del culto, Libreria Scientifica Editrice, Napoli, 1968.
Pedroni 2000:
L.
Pedroni, Interrogativi sulla magistratura monetaria in età post-annibalica, in:
“Dialogues d’histoire ancienne”, vol. 26 n. 1, 2000. pp. 129-149.
Torelli 1981:
M. Torelli,
M.: C. Cocceius Flaccus, senatore di Paestum, Minea M.F. e Bona Mens, in “AnnPerugia”
18 (1980-81), pp. 103-115.
Torelli 1996:
M. Torelli, Donne, domi nobiles ed evergeti
a Paestum tra la fine della Repubblica e l'inizio dell'Impero, in: Les élites
municipales de l'Italie péninsulaire des Gracques à Néron. Actes de la table ronde de Clermont-Ferrand (28-30
novembre 1991), Collection de l'École française de Rome 215, pp. 153-178.
Torelli 2004:
M. Torelli, La basilica di Ercolano. Una proposta di
lettura, in “Eidola” 1 (2004), pp.
117-149.
[1] Greco
– Theodorescu 1980, pp. 9-12.
[2] Gellio Noctes atticae, 16, 13, 9.
[3] Livio XXVII 10, 8.
[5] ILP nn. 81-82. AE 1975,
0248, 0249.
[6] ILP nn. 84, 83.
[7] ILP n. 163.
[8] Torelli
1981, pp. 109; Torelli 1996, p. 156.
[9] Torelli 1996, pp. 154-157; Torelli 2004, p. 127.
[10] ILP n. 18.
[11] Mello 1968, passim.
[12] Torelli 1981, pp. 109-110; Torelli 1996, pp. 157-158.
[13] Pedroni 2000, pp. 135-136.
[14] Torelli
2004, pp. 126-127.
[16] Torelli 1981, pp. 11-112; Torelli 1996, pp. 167-168.
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