domenica 10 luglio 2016

Premio Strega...qualcosa è cambiato













L’8 luglio 2016, presso la nuova sede dell’Auditorium  nel Parco della Musica è stato proclamato il vincitore del XVII Premio Strega.  Il presidente di seggio Nicola Lagioia, vincitore del Premio Strega 2015 (La ferocia, Einaudi), e Tullio De Mauro, presidente della Fondazione Bellonci, hanno decretato vincitore con 143 voti Edoardo Albinati,  La scuola cattolica (Rizzoli).  I voti espressi sono stati 395 (pari all’85,86% degli aventi diritto al voto; 319 voti online e 76 cartacei).
La corsa non si è svolta sul filo del rasoio: fin da subito si è capito chi fosse il vincitore. La scuola cattolica è il  testamento di una generazione: quei ragazzi di  una Roma borghese degli anni ’70 che non avrebbero più potuto cambiare il mondo. Disincantati, atroci. Un racconto denso, che attraversa ben 1.294 pagine. Che parte dall’esigenza dell’autore di raccontare il delitto del Circeo e i protagonisti, suoi coetanei e compagni di scuola, per proseguire con la narrazione assumendo la forma di un vortice oscuro, che si allarga per scivolare in se stesso.  Un romanzo scritto in dieci anni, con una prosa brillante, alle volte discontinua, poderosa e chirurgica che ha sedotto la giuria. L’autore ha dedicato la vittoria a Valentino Zeichen poeta e suo amico scomparso pochi giorni fa.
Albinati ha eletto come suo “Super Strega” Ferito a morte  di Raffaele La Capria (vincitore nel 1961).
Secondo classificato con 92 voti, Eraldo Affinati, L’uomo del futuro (Mondadori), un volume dedicato a don Lorenzo Milani, il  “prete degli ultimi” raccontato a 50 anni dalla scomparsa nell’ultimo periodo della sua vita. Don Milani è una figura che risulta ancora “inafferrabile” scrive l’autore. “Don Milani non ci lascia un’opera, una filosofia, un sistema, un progetto, ma energia allo stato puro. L’inquietudine che c’è prima dell’azione. Come se non fosse possibile tenerlo fermo per esaminarlo, sfugge a qualsiasi definizione”.  L’autore ricorda come i ragazzi di Barbiana equivalgano agli immigrati di oggi. L’esempio di don Lorenzo oggi è attuale più che mai.
Super Strega di Affinati è Cinque storie ferraresi di Giorgio Bassani, Premio Strega 1962.
Terzo classificato con 89 voti Vittorio Sermonti, Se avessero (Garzanti), che partecipa al premio Strega per la seconda volta. Scrittore, poeta e saggista ma anche traduttore meraviglioso di classici come l’Eneide e le Metamorfosi, presenta un volume che attraversa settant’anni di storia italiana per raccontare se stesso. La narrazione parte dal mancato arresto del fratello nel ’45. In quel breve frangente succede qualcosa nel profondo del protagonista adolescente. La sua mente elabora una sequenza di fantasticherie, di luoghi e non luoghi, portandolo a immaginarsi in una vita completamente diversa. I momenti più importanti della vita spesso sono lampi che rimangono acquattati nel buio della mente e si riaffacciano ogni tanto come “intermittenti soprusi della memoria”.  Il libro è una canzone d’amore intessuta di vita, scelte e passioni. L’Italia sembra un “interminabile dopoguerra” e ognuno è concentrato su se stesso e “non contiamo niente, perché ognuno conta purtroppo tutto”.
Superstrega di Sermonti è Il Gattopardo  di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, 1959.
Quarto classificato con 46 voti Giordano Meacci, Il cinghiale che uccise Liberty Valance (Minimum Fax).  Il titolo si rifà al film western del 1962 diretto da John Ford, “L'uomo che uccise Liberty Valance”. È un racconto fantastico di linguaggi decifrati e sperimentati, dove la lingua è al centro e non diventa suono o mezzo ma qualcosa di più vivido e palpabile, è il motivo stesso del libro. È un baratro vertiginoso che conoscere non lascia scampo: in un paesaggio immaginario vivono alcune  persone e una comunità di cinghiali. Tra questi uno acquisisce magicamente la capacità di elaborare pensieri e la consapevolezza della morte. Diventa cioè capace di leggere nel cuore degli uomini che è poi quella capacità ancestrale del Minotauro condannato alla solitudine perché diverso: non abbastanza umano per non essere temuto e troppo consapevole per poter essere ancora un animale.
Super Strega, Sandro Veronesi Caos calmo (2006).
 Infine quinta classificata con 25 voti Elena Stancanelli con La femmina nuda (La nave di Teseo). La storia di un’ossessione amorosa di una donna, Anna, che ha organizzato la sua vita per costruirsi una inutile barriera difensiva. La fine del suo rapporto con il suo compagno la trasformerà in una stalker. Chiunque può precipitare nell’ossessione quando fallisce il proprio progetto di vita, specie sentimentale. A fare da quinta teatrale l’invadenza dei social network che penetrano nella vita quotidiana disturbando, distruggendo, avvelenando.   
Super Premio di Elena Stancanelli è La chiave a stella, di Primo Levi (Premio Strega 1979).

Ogni edizione dello Strega rinnova una magia. La magia dei ricordi e di quella bellezza che sempre ammanta il passato. Paola Pitagora ad apertura di serata ha letto alcune imprescindibili pagine di  Maria Bellonci da Come un racconto gli anni del Premio Strega.  Quelle “nove tazzine e le due teiere”  che subito ci immergono in un clima di dolcezza, di nostalgia e che a distanza di settanta anni non sono più soltanto poetica ma epica e questa grandezza è ribadita dalle parole di Tullio de Mauro.

L’emozione cresce e si trasforma in un sentimento profondo di affetto e di gratitudine quando si evoca il nome di Umberto Eco, Premio Strega 1981 con “Il nome della rosa”.

A dire il vero, però, quest’anno qualcosa è cambiato di quell’incanto sospeso offerto dalla notte estiva e dalle quinte teatrali del ninfeo di Villa Giulia, il luogo storico del Premio. Certo la sala Sinopoli è molto più ampia e può ospitare fino a 1200 persone, ma era palpabile nel pubblico una sorta di smarrimento al quale Francesco Piccolo, vincitore del Premio Strega 21014 con Il desiderio di essere come tutti (Einaudi) ha dato voce: “Riportate lo Strega al Ninfeo di Villa Giulia. Lo Strega è il Ninfeo di Villa Giulia. Stasera è un’edizione speciale, la Sala Sinopoli è bella,  ma basta!”.



lunedì 30 maggio 2016

L'accidentato viaggio di Berto e gli altri - dieci racconti sulla disabilità, Città Aperta Edizioni, Troina 2003


 A cura di Maria MIlvia Morciano

Dieci grandi opere d'arte del passato interpretate da dieci scrittori:

Ferdinando Albertazzi, Sara Boero, Teresa Buongiorno, Roberto Denti, Ermanno Detti, Aldo Gerbino, Angela Nanetti, Emanuela Nava, Roberto Piumini, Costanza Savini

e da cinque illustratori contemporanei:

Antonella Abbatiello, Alessandra Cimatoribus, Emanuele Luzzati, Sophie Fatus, Lucia Scuderi

Illustrazione di copertina: Roberto Innocenti

venerdì 29 aprile 2016

Mineia M.f. La nobile signora di Paestum



http://www.portaleletterario.net/notizie/attualita/560/mineia-m-f-la-nobile-signora-di-paestum-parte-prima


http://www.portaleletterario.net/notizie/arte-e-cultura/569/mineia-m-f-la-nobile-signora-di-paestum-e-la-dea-bona-mens-parte-seconda

http://www.portaleletterario.net/notizie/arte-e-cultura/588/mineia-m-f-la-nobile-signora-di-paestum-terza-ed-ultima-parte











Mineia M. f.
La nobile signora di Paestum

                                                       
                                                        Maria Milvia Morciano


Paestum è una città dalla lunga vita. Le origini dell’insediamento risalgono alle epoche preistoriche, ma la fondazione della città greca, Poseidonia, avviene verso il 625 a.C., per opera di coloni Sibariti.  Il suo nome muta come Paistom quando venne sotto l’influenza lucana e diventò Paestum quando fu colonia romana, nel 273 a.C.
Molti dei suoi resti, a testimonianza delle diverse fasi storiche che interessarono la città, rimangono miracolosamente intatti. Come non citare le tombe dipinte, misteriose e profonde di significato come quella del Tuffatore, dove un giovane si getta dal trampolino giù nelle acque, forse più metaforiche che reali, di un al di là sconosciuto. Oppure si tratta proprio del mare, elemento fondamentale di Paestum che prende il suo nome greco dal dio Poseidone, il signore degli abissi marini. E i suoi grandi templi sono ancora in piedi, uno sul limite settentrionale della città, dedicato ad Athena (Athenaion, fine VI sec. a. C.) e gli altri due a meridione, il primo dedicato a Posiedon-Nettuno (metà del V sec. a.c.) e l’altro ad Hera  (la cosiddetta Basilica), il più antico della città.
Sempre consacrato a Hera, fin dall’epoca arcaica, sorgeva un santuario distante una decina di km, alla foce del Sele, decorato da metope scolpite con favolose fanciulle danzanti, che nell’incedere sembrano ancora far sentire il fruscio delle loro vesti.
Più tardi la città fu cinta da una poderosa fortificazione, ancora oggi conservata in gran parte per tutto il suo tracciato, con le sue torri e le sue porte.
Il centro urbano si riorganizzò più volte fino a realizzarsi tra la fine della repubblica e la prima età imperiale, tra Cesare e Augusto.
La piazza principale della città, il Foro, si dotò di tutti quegli edifici necessari allo svolgimento delle attività politiche e sociali. Lungo il suo spazio rettangolare si disposero la Basilica, il comitium, il macellum e le tabernae.[1] Inoltre si riconoscono alcuni templi, il più importante dei quali sul lato nord della piazza, il cosiddetto Tempio della Pace, nel quale andrebbe piuttosto ravvisato un luogo di culto dedicato a Bona Mens, come vedremo più avanti.
In questo periodo Paestum come molte colonie è interessata da numerosi lavori edilizi intesi a riorganizzarla e abbellirla rendendola, come scrive Gellio, quasi effigies parvae simulacraque,[2] la copia in scala della capitale.   Si vuole cioè simulare e replicare la grandezza di Roma, che rappresenta il modello urbano ma che è anche la capitale del mondo di allora, il centro del potere, al quale aderire per testimoniare sicura fedeltà.  E fedeltà Paestum l’aveva sempre dimostrata, ad esempio durante la seconda guerra Punica, quando lo storico Livio la nomina tra le diciotto colonie che non tradirono Roma.[3]
A preoccuparsi di dare questo volto alla città, seguendo veri e propri programmi propagandistici, sono le famiglie più abbienti, che attraverso elargizioni guadagnano potere e influenza. Con atti di donazione finanziano la costruzione o la ricostruzione di molti edifici  pubblici, religiosi e di spettacolo.



In questo periodo a Paestum emerge il nome di una donna di grande potere e prestigio, appartenente a una famiglia di rango senatorio, che diventa la protagonista di alcuni importanti interventi urbani della città: Mineia M. f.
 Non si può dire molto della sua vita e tanto meno della sua personalità. Tutto ciò che rimane sono alcune fredde e icastiche epigrafi che riassumono in poche parole legami, circostanze, opere, occasioni. Non esistono suoi ritratti, il suo volto è sconosciuto e nulla si può dire del suo temperamento. Sappiamo solo che oltre al prestigio a lei fu dato il dono di una vita longeva.  Eppure il segno lasciato da questa donna fu così importante da meritarsi l’onore eccezionale di essere ricordata su alcune emissioni monetali.
Tuttavia, le testimonianze archeologiche se ben interrogate non tacciono.
La sua famiglia è ricordata da una serie di iscrizioni, poste sotto altrettante statue, che Mineia stessa dedicò nella Basilica della città, uno degli edifici peculiari del Foro dove avvenivano le riunioni pubbliche e si amministrava la giustizia.
La prima iscrizione è dedicata al marito C. Cocceio Flacco, senatore pestano, che fu annoverato da Cesare tra i quaranta questori nel 44 a.C. In seguito, ancora sotto Cesare o Augusto, fu autore della deduzione coloniale di Apamea, porto di Prusa in Bitinia, come colonia Iulia Concordia Apamea. L’iscrizione a tal proposito ricorda che fu anche autore dell’assegnazione dei terreni pertinenti alla colonia:[4]
[C. (?) Cocceio – f. ] c.N.
[Fla]c[co, quaesto]ri lecto
ab div[o Caesar]re, legato
M’. Octa[cili Crassi] in Bithynia
pro [pr(aetore); agros de Ap]amaea divisit,
Min[eia (M.f.)]uxor
Divenne infine senatore tra il 47 e il 46 a. C. Questa carriera così brillante subì un arresto improvviso segnato dal silenzio delle fonti, testimoniando così la sua morte e quindi la vedovanza di Mineia.
Altre iscrizioni, fra loro simili, sono rivolte dalla dama ai suoi due fratelli, insigniti dello stesso rango del marito:[5]
M(arco) Mineio M(arci) f(ilio)
L(ucio) Mineio
L. Mineio
Marci nepoti Flacco tr[ib(uno)]
M(arci) (filio) M(arci) n(epoti)
M. f. M.n.
Mil(itum) Mineia [sor]or
Mineia sor(or)

Mineia soror
Ancora una quarta ricorda Mineia o una sua omonima parente, forse la sorella.  Una quinta menziona un notabile locale, probabilmente il nipote di Mineia, essendo lei l’avia, cioè la nonna:[6]
 
[M]ineia
[C. (?) Co]cce[io]
[M.f. uxor]
[C. (?) f. C.(?) n.] Aequo

[Min]eia avia

A chiudere il cerchio, troviamo una lunga iscrizione abbastanza lacunosa ma ricostruibile senza particolari difficoltà. Essa, disposta su due righe per una lunghezza originaria di dieci piedi (pari a m 3), riporta le seguenti parole: “Mineia M. f., moglie di Cocceio Flacco, madre di Cocceio Iusto, costruì con propri denari, fin dalle fondamenta, la Basilica e davanti a essa il portico con tutto il pavimento”. [7]
[Mineia M.f. C. C.  Coc]ce[i F]lacci, [m]ate[r C. (?) Coccei Ius[ti, ab fundamentis
[basilicam e]t ante ba[silicam sua p]ecu[nia fecit porticus cum pavim]entaque omnia
La Basilica pestana è stata identificata nella cosiddetta Curia, situata al centro del lato lungo meridionale del Foro ed è datata al primo periodo augusteo sia dagli scavi stratigrafici sia da questa lunga iscrizione.
Grazie all’integrazione di questa con quella menzionante Aequus è possibile ricostruire una logica sesta epigrafe che non è stata mai rinvenuta:[8]
[-] Cocceio
C. (?) f. C.(?) n.] Iusto
[Min]eia mater

I cognomina ricordano le virtù di giustizia ed equità, lasciando pensare che si tratti di personaggi strettamente legati da un legame di parentela: si tratta del padre Iustus e del figlio Aequus.
Mineia perse prematuramente sia il marito, sia il figlio, e il figlio poté percorrere per un solo tratto la carriera paterna, pur anch’essa interrotta proprio nel momento di massima ascesa.
L’imitazione con Roma è evidentissima: la famiglia di Mineia riflette in modo perfetto la gens Iulia. La Basilica di Roma fu, infatti, chiamata da Augusto basilica Gai e Luci, in onore dei due figli adottivi morti prematuramente.
Mario Torelli, che ha studiato questo gruppo di iscrizioni pestane, arriva ad assegnare il posto occupato da ciascuna statua, individuata dalle iscrizioni dedicatorie. Infatti, solo una statua delle sei è giunta fino a noi, raffigurante una figura virile, togata e stante.
Le statue ritratto si disponevano sui lati corti della Basilica, entro delle nicchie.  Su un lato, nella nicchia centrale, doveva esserci la statua del marito C. Cocceio Flacco, mentre quelle del figlio Iustus e del nipote Aequus dovevano stargli ai lati. Sulla parete opposta, proprio di fronte al marito, doveva esserci la statua di Mineia posta tra quelle dei due suoi fratelli, Marco Mineio e Lucio Mineio. [9]
A dare un quadro più ampio e dettagliato dell’attività della donna, concorre un’ulteriore dedica rivolta dai magistri Mentis Bonae, un collegio di liberti addetti al culto della dea Bona Mens, a Mineia stessa:[10]
Min[eiae]
M.f.
magistri Men[tis]
Bonae
Si tratta di una divinità importantissima a Paestum e in stretto rapporto con la compagine sociale ed economica del tempo. Infatti, essa presiede alla liberazione dei servi e garantisce che essi mantengano una buona disponibilità d’animo verso gli antichi padroni. Passaggi fondamentali questi, perché con la liberazione degli schiavi, che diventano liberti, alla ricchezza della classe nobiliare si affianca sempre più nel tempo quella di una classe sociale fatta di “nuovi ricchi”, creando nuove dinamiche di potere, equilibri sociali diversificati e complessi.[11]
Il legame tra Mineia e Bona Mens è testimoniato dalla dedica che il collegio di liberti rivolge alla donna, ma potrebbe anche essere riaffermato da un legame urbanistico. Il tempio repubblicano cosiddetto della Pace, ritenuto anche Capitolium, cioè dedicato alla triade Giove, Giunone e Minerva, è in realtà più probabilmente il tempio consacrato alla dea.
Esso si trova proprio di fronte alla Basilica, all’edificio cioè che riceve l’impronta di Mineia. È quindi probabile che la dedica dei magistri Mentis Bonae si riferisca a un suo patronato sul collegium. E decisivo per avvalorare questi legami è l’emissione monetale con il nome di Mineia M. f., un onore eccezionale, che pone la donna in una posizione di assoluto prestigio.
La moneta è un semiasse di bronzo. Il lato recto riporta una testa di divinità femminile e la legenda Mineia M. f.; sul lato verso, vi è raffigurato un edificio colonnato su due piani con il tetto a capanna. La legenda riporta: P(aestum) S(emis) sulla sinistra dell’edificio e continua a destra con S(enatus) C(consulto).[12] È stato proposto che P S, in analogia all’iscrizione della basilica, sia letta come P(ecunia) S(ua), anche perché non vi sarebbero per la città altre indicazioni del valore nelle monete bronzee nello stesso periodo. In ogni caso le monete di Mineia provano come in questo periodo il metallo destinato alla coniazione di monete fosse di origine privata.[13] Quindi Mineia avrebbe fornito anche il bronzo per battere le monete che portano il suo nome.
La dea è a tutta evidenza Bona Mens, mentre l’edificio, nella schematicità dei portici su due piani, riporta al modo convenzionale con cui si rappresentata la Basilica. Certo è difficile non cedere alla tentazione di pensare che Mineia volesse identificarsi con la dea stessa, così come Livia fu associata a Pietas su un dupondio bronzeo (moneta da due libbre).
Mineia non è certamente un esempio isolato. Le fonti storiche e archeologiche ricordano diverse donne di prestigio che intesero imitare Roma concorrendo alla costruzione o alla ricostruzione di edifici pubblici, come ad esempio Eumachia a Pompei. Lo stesso, le “gallerie” di ritratti di intere famiglie sono una caratteristica non rara in epoca augustea in molte città romane, come a Ercolano.[14]
Tuttavia un esempio similare si trova proprio a Paestum e interessa un intervento edilizio in un’area extraurbana della città per opera di due sacerdotesse, madre e figlia, Sabina, moglie di un Flacco e Valeria C. f., moglie di un Sabino. Si tratta del santuario di Santa Venera, dedicato a Venere - Afrodite ed esistente fin dagli inizi del VI sec. a.C.
La divinità adorata ha dapprima connotazioni greche, ma con il tempo prende caratteristiche più specificatamente romane, quelle della Venus Genetrix ovvero della capostipite della gens Iulia, la famiglia di Cesare, che viene divinizzata, rendendo anche questo culto finalizzato all’esaltazione del potere personale. Le due sacerdotesse danno impulso al culto tra la fine della repubblica e l’inizio dell’impero, nello stesso scorcio di tempo in cui operò Mineia. [15]
Un’ipotesi avanzata da Mario Torelli sarebbe che Sabina fu anch’essa moglie di Caio Cocceio Flacco e Valeria la figlia. Mineia quindi sarebbe la seconda moglie.[16]
Si tratta di una possibilità che lascia spazio a ulteriori e affascinanti speculazioni. Le opere evergetiche delle donne, di Mineia e di Valeria con Sabina, divergono sia come significato sia come peso in termini di prestigio sociale.
Mineia destina il suo denaro a opere intra-muranee, perseguendo finalità di ordine spiccatamente politico e sociale, esibite ed evidenti. Sabina si dedica invece ai rifacimenti di un luogo sacro extra-muraneo, con connotazioni di natura certamente politica e non solo religiosa, ma comunque in un modo più appartato, meno esibito.
     Di là dalle spiegazioni di tipo storico, ove sono in gioco volontà di potere e dimostrazione della propria munificenza, cosa possiamo dire di più. Possiamo tentare una lettura psicologica delle azioni svolte dalla seconda moglie del senatore, Mineia, rispetto alla prima, Sabina? Non potremmo vederci una sottile soddisfazione, una sorta di competizione per cui, al ripescaggio dell’antico culto venusiano quale simbolo di progenie di tutto il popolo romano e posto in area extraurbana operato dalla sacerdotessa, si contrappone un atto non solo di imitazione ma di una propria identificazione, dove il modello ricalcato è addirittura Livia - moglie di Augusto, madre di Tiberio e di Druso maggiore, nonna di Germanico e Claudio, bisnonna di Caligola e trisavola di Nerone - attraverso la riproposizione del ritmo binario dei medesimi edifici del Foro: porticus Liviae - aedes Concordiae a Roma / basilica Mineiaeaedis Mentis Bonae a Paestum?[17]  Se il marito fosse con certezza lo stesso Flacco direi proprio di sì.
Mineia ricostruisce e decora la Basilica con le statue della sua famiglia, che diventa quasi un edificio di “culto civile”, un “larario pubblico”, fatto per celebrare il potere di una gens.  Il pensiero corre subito a Roma, come più volte è stato ribadito, all’esempio di Livia e quindi a tutte quelle divine personificazioni delle “virtù imperiali” che diventano nel tempo centrali e sempre più numerose: Concordia, Pax, Salus, Pietas, Victoria ecc.
Mineia sopravvive al marito, al fratello, al figlio Iustus, e forse anche al nipote Aequus. Rimane sola a testimoniare la memoria del marito e della famiglia. Intorno al 20-10 a. C. costruisce un monumento quale simbolo del potere acquisito, ma anche segno del rammarico per quello che i suoi uomini avrebbero potuto ottenere e che la morte ha interrotto.
 Si tratta di una vedova che sceglie di restare in perenne lutto, pietrificata dal dolore come la sua stessa statua, che colloca tra i ritratti dei suoi morti. Mineia, solitaria e saturnina donna depositaria dell’honos e della virtù familiare, riflette anche nella sua vita la condotta perfetta che si richiede alla moglie ideale di età augustea. Non il protagonismo punito di una donna fatale come ad esempio era stata Cleopatra, ma il pudore di chi sembra contentarsi di vivere apparentemente di luce riflessa come Livia, madre silenziosa e virtuosa, destinata dopo la sua morte a essere divinizzata dal figlio Claudio.
Chissà se dalla sua casa Mineia sentiva il profumo delle celebri rose pestane, il magnifico fiore che qui fiorisce rosso e odoroso due volte l’anno, cantato da Virgilio, Orazio e Properzio.

Roma, 3 ottobre 2011


Abbreviazioni

AE:
Année épigraphique

ILP:
M. Mello – G. Voza, Le iscrizioni latine di Paestum, Napoli 1968.

Greco – Theodorescu 1980 :
E. Greco – D. Theodorescu, Poseidonia-Paestum 1: La curia, vol. 1, Roma 1980, Collection de l’École française de Rome 42.

Mello 1968:
M. Mello, Mens Bona. Ricerche sull’origine e sullo sviluppo del culto, Libreria Scientifica Editrice, Napoli, 1968.

Pedroni 2000:
L. Pedroni, Interrogativi sulla magistratura monetaria in età post-annibalica, in: “Dialogues d’histoire ancienne”, vol. 26 n. 1, 2000. pp. 129-149.

Torelli 1981:
M. Torelli, M.: C. Cocceius Flaccus, senatore di Paestum, Minea M.F. e Bona Mens, in “AnnPerugia” 18 (1980-81), pp. 103-115.

Torelli 1996:
M. Torelli, Donne, domi nobiles ed evergeti a Paestum tra la fine della Repubblica e l'inizio dell'Impero, in: Les élites municipales de l'Italie péninsulaire des Gracques à Néron. Actes de la table ronde de Clermont-Ferrand (28-30 novembre 1991), Collection de l'École française de Rome 215, pp. 153-178.

Torelli 2004:
M. Torelli, La basilica di Ercolano. Una proposta di lettura, in “Eidola” 1 (2004), pp.  117-149.


[1] Greco – Theodorescu 1980, pp. 9-12.
[2] Gellio Noctes atticae, 16, 13, 9.
[3] Livio XXVII 10, 8.
[4] ILP n. 85. AE 1975, 0250; Torelli 1981, pp. 105-108; Torelli 1996, p. 107.
[5] ILP  nn. 81-82. AE 1975, 0248, 0249.
[6] ILP  nn. 84, 83.
[7] ILP n. 163.
[8] Torelli 1981, pp. 109; Torelli 1996, p. 156.
[9] Torelli 1996, pp. 154-157; Torelli 2004, p. 127.
[10] ILP n. 18.
[11] Mello 1968, passim.
[12] Torelli 1981, pp. 109-110; Torelli 1996, pp. 157-158.
[13] Pedroni  2000, pp. 135-136.
[14] Torelli 2004, pp. 126-127.
[15] Torelli 1996, pp. 159-175.
[16] Torelli 1981, pp. 11-112; Torelli 1996, pp. 167-168.
[17] Ivi, p. 176.